«I figli degli stranieri non subiranno il sistema»

Da quando il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge che riduce a cinque anni il tempo per poter chiedere la cittadinanza italiana, e promette di riconoscerla a tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri che abbiano i requisiti per naturalizzarsi, ci si interroga su cosa significa essere italiano. Gli attentati sventati a Londra, poi, hanno riportato in primo piano l’immagine di ragazzini di origine straniera ma con passaporto inglese disposti a farsi saltare in aria. In Italia la Lega annuncia un referendum contro una legge «che gli italiani non vogliono». Ne parliamo con Giuseppe Sciortino, sociologo e ricercatore dell’Università di Trento, che al suo attivo può vantare decine di pubblicazioni e ricerche sul fenomeno dell’immigrazione.
Il ddl Amato le sembra azzardato?
Forse è il caso di specificare che il disegno di legge si propone di modificare la legge del ’92, e in fondo non fa altro che riportare i termini per l’acquisizione della cittadinanza a cinque anni, esattamente come accadeva con la legge precedente del 1912. Dunque, tranne sostenere che Carlo Alberto fosse un pericoloso rivoluzionario, è il caso di dire che torniamo alla tradizione italiana. Ovviamente l’aspetto davvero importante è l’introduzione dello ius soli, vale a dire la possibilità per i bambini nati in Italia di acquisire la cittadinanza. Dopodiché il problema, in Italia, è che manca una procedura certa per uno straniero che abbia deciso di diventare italiano. Il riconoscimento della cittadinanza, oggi come oggi, dipende da cosa ha mangiato la sera prima il funzionario che dovrà decidere. Nel corso delle mie ricerche ho incontrato casi interessanti: cittadinanze negate in base al fatto che il richiedente va in vacanza all’estero troppo spesso, il che dimostrerebbe lo scarso attaccamento all’Italia. Oppure persone che hanno dovuto rispondere a domande del tipo: cosa provi quando scende in campo la nazionale di calcio italiana?
Procedura certa significa anche regole certe. Ma come si fa ad accertare che una persona sia italiana?
Per me integrazione significa che una persona rispetta le regole di questo paese. E questo la maggior parte delle famiglie immigrate lo fa già da anni. Per non parlare dei ragazzini che sono nati in Italia o che qui hanno frequentato le scuole: non credo che assumeranno comportamenti molto differenti a quelli dei loro coetanei.
Non la fa un po’ facile? Ad esempio, in Italia è prima di tutto la famiglia che ha il compito di trasmettere valori, e quei valori sono inattaccabili.
Prima di tutto, questo modello non è strettamente italiano. E poi, anche se è vero che la famiglia trasmette determinati valori, non è vero che questo nucleo di valori è immutabile. I ragazzini immigrati possono anche nascere in una famiglia che, poniamo, imponga un certo modo di vestire. Ma quando i loro coetanei si vesitiranno come le Winx sarà inevitabile il conflitto con la famiglia, esattamente come è successo a tutti noi quando siamo cresciuti. Questo deve essere chiaro: integrazione non vuol dire assenza di conflitto. Dunque non la sto facendo affatto facile, anzi prevedo una grossa mole di conflitti. Ma è come lamentarci del fatto che invecchieremo. E non è che se loro o i loro genitori non avranno la cittadinanza questo processo sarà più semplice. Sarà più complicato.
E i conflitti non si possono accompagnare?
La mia tesi, che è un po’ conservatrice, è che le politiche debbano cercare prima di tutto di non fare danni. La scuola può fare di più ma le politiche scolastiche italiane non sono pessime, anzi teoricamente sono molto inclusive. Il problema è che sono costose. E sappiamo benissimo che gli interventi di facilitazione, come i mediatori culturali, sono i primi a saltare quando si tagliano i fondi. Però sappiamo che le cose cambiano dopo le scuole dell’obbligo: recenti ricerche hanno dimostrato che i figli degli immigrati tendono a concentrarsi verso le scuole professionali, che ottengono risultati inferiori e che c’è una discriminazione di genere. In qualche modo si riproduce il sistema di classe già analizzato in passato per i meridionali.
La scuola non dovrebbe promuovere valori costituzionalmente garantiti, ad esempio la non discriminazione?
Il primo antidoto è il fatto che la scuola italiana è pubblica e universalistica: un qualsiasi ragazzino nella scuola pubblica ha la possibilità di finire in una classe dove c’è almeno la metà di persone dell’altro genere, dove c’è gente più ricca e gente più povera. Qual è la proposta: fare dei corsi di emancipazione? Io sono un meridionale cinico, e già vedo i ragazzini costretti a fare la danza etnica di un paese che neanche conosco. Facciamo attenzione, il rischio ridicolo è altissimo.
Insomma, lei è ottimista.
Dieci anni fa si diceva che le nostre città sarebbero state in fiamme e che nelle scuole si sarebbe sparato. Mi sembra che gli ottimisti abbiano avuto ragione. Oggi una preoccupazione ce l’ho, e riguarda le seconde generazioni. Il sistema adesso regge perché chi emigra sa benissimo che sarà trattato male. Vuole accumulare reddito e la sua identità dipende dal reddito che accumula. Ha persone che lo stimano nel paese d’origine, e insomma ci sono diversi fattori per cui riesce a tollerare livelli di esclusione o semplicemente di non soddisfazione che a un autoctono sembrano impossibili. Questo non vale per i ragazzini nati e cresciuti in Italia né per quelli arrivati dopo la nascita. L’idea che a loro sarà riservato lo stesso destino dei loro genitori non funzionerà. Per questo la questione dell’integrazione scolastica e delle reti sociali è cruciale. Sono problemi certamente di medio periodo, non urgenti, ma proprio per questo occorre pianificarli. Quando diverranno urgenti sarà tardi.