Il 7 Luglio del 1960 a Reggio Emilia, la polizia carica trecento operai delle officine di Reggio Emilia in sciopero. Questi uomini sono armati di mani nude e vengono massacrati. Ci sono molti feriti e dei morti: sono Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Afro Tondelli, Emilio Reverberi, Marino Serri. Il presidente del consiglio al tempo era Ferdinando Tambroni, al governo grazie all’appoggio del Movimento sociale italiano e dichiarato oppositore della Costituzione fondata sulla Resistenza dell’Italia antifascista. Quella giornata passa alla storia come “I fatti di Reggio Emilia”. E’ questo l’epicentro del nuovo libro di Paolo Nori, Noi la farem vendetta (Feltrinelli, pp.191, euro 15). Con una scrittura frammentata e fortemente strutturata Nori ricostruisce la scena, e lo fa attraverso documenti ufficiali, resoconti giornalistici, verbali di polizia, testimonianze politiche e soprattutto umane. Cita e racconta il film Vento di luglio, prodotto dal Comune di Reggio Emilia e dalla sezione audiovisivi della Biblioteca Panizzi, curato da Paolo Bonacini con la collaborazione di Gianni Barigazzi e Paolo Borciani, che rievoca le vicende di quei giorni attraverso i ricordi dei protagonisti, le struggenti testimonianze dei parenti delle vittime e le riprese girate al tempo da Franco Cigarini.
Ma soprattutto Paolo Nori racconta con sentimento unico, esistenziale, l’Emilia rossa. Chi lo conosce questo scrittore, conosce la voce di Learco Ferrari, un giovane del nord, Parma, che si innamora, che cerca lavoro, che vuole scrivere, che ci riesce, che pubblica, stampa legge ristampa e corregge, che ama la grande letteratura russa e la traduce, che un giorno ha un incidente e finisce in un reparto per grandi ustionati e poi guarisce, e si innamora ancora, e da Parma si trasferisce a Bologna, e ingrassa senza darsi pace, e fuma nei tempi morti e nei tempi vivi, passa le sue giornate su un treno regionale, ed è anarchico, e ha uno sguardo sul mondo, che chi lo conosce Learco Ferrari, non può confondere. Quella voce, la voce di Learco è ancora viva in queste pagine dolorose, che hanno come tema dominante, una situazione politica, che si ripete nel tempo senza soluzione di continuità, dalla vecchia guardia della Dc a oggi. Immutabile, questa è la parola che sembra suggerire Nori, come se la storia, non avesse tempo, non avesse passato, errori, memoria, soprattutto memoria. Nori rielabora le giornate di Reggio, le attraversa e anche le spiega, a chi di quei giorni non sa nulla. Fino al capitolo finale, in cui ci presenta una ad una, le vittime e i famigliari di queste.
In questo articolato coro di voci, dove si indaga anche il conflitto freddo fra Unione Sovietica e Stati Uniti, l’autore racconta di sua figlia, di come di nascosto per non sembrare fanatico, le legge l’Ariosto, e dice come il sentimento di essere diventato padre, lo getti al centro di quella scena: «Ho letto un libro di uno che ha avuto un figlio e che dice che quando hai un figlio è il momento che ti devi mettere in moto. Ecco io ho appena avuto una figlia e quello che mi sembra, che avere un figlio finisce il tempo. Non hai più tempo, non hai più dei pomeriggi, o meglio hai dei pomeriggi, ma son pomeriggi senza tempo che è come se non fossero dei pomeriggi, mi sembra. Ecco Franchi, il fratello di Ovidio, l’impressione che dà, che quel fatto che gli hanno ammazzato in piazza il fratello quando aveva diciassette anni è come se avesse avuto un figlio».
Altri piccoli fili si dipanano in questo romanzo, sono vecchie e nuove stelle che non smettono di brillare, come Kierkegaard, la Russia (la Russia così cara a Nori e a Learco) la moglie Francesca, i treni regionali, la letteratura e il rapporto dell’autore con questa, come fruitore, come scrittore: «Una cosa che mi è venuta in mente spesso in questi ultimi cinque anni è stata Io sono il più grande scrittore italiano vivente sul globo terracqueo. Non credo di esserlo. Mi viene fuori non so perché e non mi fa onore, come si dice, ma mi vien fuori». C’è una vena nella scrittura di Nori, rintracciabile in tutti i suoi romanzi, che è fatta di magica ironia, di disincanto, di verità. Proprio come la necessità di far vendetta, che non è nobile, ma è reale: grida. In questo romanzo difficile e scomodo, la sua voce tutta emiliana, quasi crespucolare, – quel senso disarmante delle piccole cose, – ancora si rintraccia. Quel suono che non lo abbandona mai, neanche in una struttura così articolata e difficile. Quel segno che ancora dice «Però – Però l’Emilia al mattino d’inverno, una giornata limpida, dai finestrini di un treno è commovente».