I «fannulloni»? Ichino colpito dal solleone

«Lo Stato tagli i fannulloni», così, in prima pagina del Corriere della Sera di ieri, un pregevole scritto del prof. Ichino ammannisce un’originale ricetta per ridurre la spesa pubblica.
Partendo dalla prova scientifica che tra i pubblici dipendenti si annida un esercito di fannulloni contro i quali le regole della pubblica amministrazione nulla possono, propone una legge che, per il prossimo triennio, imponga ad ogni amministrazione il licenziamento di un dipendente ogni cento, scelto da una commissione indipendente sulla base dei «criteri oggettivi del minimo rendimento e della massima inutilità». Poiché la commissione può non essere infallibile e si presume il perdurare dello stato di diritto, il lavoratore «prescelto» potrà impugnare il licenziamento, ma con l’onere di indicare un lavoratore più inefficiente da licenziare in sua vece.
Concordo con Ichino che la proposta è «politicamente scorretta»: infatti, il metodo proposto (uno ogni cento) istintivamente ricorda quello della rappresaglia. Inoltre, il diritto di difesa del lavoratore licenziato si innesta sul riconoscimento di un nuovo principio, cioè la delazione, come noto, strumento di partecipazione alla vita pubblica in tutti i regimi totalitari.
Il professore previene possibili critiche anticipando che agli esperti può sembrare un discorso da ombrellone, ma in questo caso credo si tratti di un discorso sotto il sol leone senza l’ombrellone. Il concentrato di luoghi comuni e provocazioni proposto, elude invece i veri nodi del lavoro pubblico la cui dimensione , in Italia, è in linea sia rispetto al Pil sia rispetto alla media Ue.
Occorre certamente combattere gli sprechi affrontando il problema degli appalti per beni e servizi la cui spesa è fuori controllo, quello delle inefficienze organizzative spesso funzionali a limitare l’universalità e l’imparzialità dell’azione delle amministrazioni pubbliche, e il tema assai scomodo degli ingenti costi della politica.
Per il lavoro bisogna, invece, superare la vergogna delle 140 mila consulenze e affrontare il problema degli organici distintamente in ogni amministrazione, agire su questi con la riqualificazione e la mobilità professionale dei dipendenti, superare l’invecchiamento del lavoro causato dai blocchi delle assunzioni con serie politiche occupazionali: ad ogni lavoro stabile deve corrispondere un lavoratore stabile.
In questo quadro si possono stabilizzare, a costo zero, 100 mila tempi determinati di lunga data e altre migliaia di posti stabili si potranno liberare per i precari che, contrariamente a Ichino, il sindacato mette al centro di una nuova politica occupazionale.
E per tutti i lavoratori pubblici il sindacato rivendica il diritto al rinnovo dei contratti con lo stanziamento nella prossima finanziaria di risorse in linea con l’inflazione e adeguate a coprire il recupero del biennio scaduto.
Naturalmente l’articolo tace dei contratti, ma si preoccupa persino di vaticinare il successo della proposta in un ipotetico referendum popolare. Insomma Ichino prova a cavalcare il consenso parlando alla pancia piuttosto che alla testa, secondo la miglior tradizione populista.
Tempo fa, anche nella mia organizzazione, ci fu chi, denunciando la sincera avversione di Ichino al sindacato, invitava a non diffonderne il pensiero, neppure con la critica. A parte il fatto che contrasta con i miei ideali di libertà e democrazia il richiamo a «bandi di proscrizione», con questa nuova proposta si dimostra che la censura non serve. Al contrario, penso che si debbano far circolare proprio i suoi scritti perché chi lo conosce lo evita.

*Segretario Generale Funzione Pubblica Cgil