I disperati di Istanbul

I disperati di Istanbul
In una piccola casa del quartiere di Armuglu si sono raccolte, per condurre fino alla morte lo sciopero della fame, mogli e sorelle di detenuti. Una lotta estrema, tra la solidarietà del quartiere e l’indifferenza del governo e dei media, turchi e occidentali
– ISTANBUL

E’ stata quella che ha digiunato più a lungo nella piccola casa di Armutlu. Per 160 giorni solo pillole di vitamine e succhi di frutta; alla fine il corpo rifiutava perfino i liquidi. La trentenne Senay Hanoglu è morta domenica pomeriggio (22 aprile, ndr). Tutti si erano stupiti che avesse ancora resistito così a lungo, poiché già da una settimana non riconosceva più i suoi due figli. Senay aveva partecipato per cinque mesi per solidarietà allo sciopero della fame dei prigionieri politici in Turchia, perché anche suo marito è in carcere.
Avrebbe dovuto uscire due giorni dopo l'”azione per salvare le vite” nelle prigioni, il 19 dicembre. Quel giorno il governo cercò di spezzare con la forza lo sciopero della fame e di trasferire i prigionieri politici nelle nuove carceri di massima sicurezza. I prigionieri opposero resistenza e si barricarono nelle celle collettive. I reparti speciali diedero allora brutalmente l’assalto alle celle. Fino ad oggi non si sa perché improvvisamente quasi tutte le prigioni si trovarono in fiamme. I carcerati giurano che fu la polizia ad appiccare il fuoco, le forze di sicurezza affermano che sono stati i prigionieri a gettare delle molotov. Entrambe le cose sono possibili. Il bilancio: 29 prigionieri e due poliziotti morti.
Il marito di Senay Hanoglu sopravvisse ma fu trasferito nel carcere di massima sicurezza a Kandira presso Izmit. Le visite erano vietate nelle settimane scorse, e comunque Senay non avrebbe più avuto la forza per andarci. La sua casa si trova nel piccolo quartiere Geçekondu a Istanbul, accanto all’autostrada che porta al ponte sul Bosforo. I vicini chiamano l’edificio “la casa della morte”. Da tre mesi vi abita un gruppo di parenti di prigionieri politici che effettuano lo sciopero della fame fino alla morte.
La trentottenne Hülya Simsek pare un’ombra, ma può ancora alzarsi. Per distrarsi dipinge grandi ritratti di donne in un paesaggio montagnoso dell’Anatolia. La ventiduenne Fatma stupisce tutti. Digiuna da quasi tanto tempo quanto Senay ma ancora si regge sulle gambe. La ventiduenne Zehra Kulaksiz sta invece ormai solo sdraiata. Divide una stanza con Senay.
Una settimana fa la sorella diciannovenne di Zehra è morta a causa dello sciopero della fame. La sua foto è appesa sopra il letto di Zehra. Sembra che la morte della sorella più giovane l’abbia rafforzata nella volontà di continuare fino alla fine. Nella sua faccia pallida si dipingono la decisione, la stanchezza e un po’ di disperazione.
Da mesi si stanno riunendo in luoghi diversi. Prima nell’ufficio di un’associazione nel centro città, sulla via Istiklal Caddesi. Ma dopo l’assalto alle prigioni, l’ufficio è stato evacuato dalla polizia; tutti gli occupanti, che in parte vi pernottavano, sono stati buttati sulla strada insieme con le loro cose. Gli scioperanti della fame si trasferirono nella casa di uno dei medici che li seguivano, ma anche lì si sono trovati presto sotto la sorveglianza continua della polizia.
Come ultimo rifugio rimase la casetta di Senay a Armutlu. Nel quartiere abitano soprattutto kurdi e aleviti. Tra grandi complessi sorvegliati si estende il piccolo quartiere di Geçekondu, con una vista magnifica sul Bosforo. Su molti muri si vedono scritte con l’insegna del Dhkp-c, partito di estrema sinistra, appelli alla solidarietà per gli scioperanti e slogan contro le nuovi prigioni di massima sicurezza.
Se si chiede ai vicini quale sia la causa dello sciopero e se possono comprendere il sacrificio di queste persone, tutti hanno un’espressione di colpevolezza. “Gli scioperanti della fame sono il nostro onore”, dice una donna, “siamo deboli, non abbiamo uomini politici o avvocati che si occupano di noi”. Perciò rimane solo la protesta con il corpo e la sua distruzione volontaria. Tutti sono d’accordo che il digiuno fino alla morte è l’unica possibilità, e ognuno si sente colpevole perché non digiuna a sua volta. Lo sciopero ha suscitato, all’interno e all’esterno della Turchia, molta meno attenzione di quanto i partecipanti sperassero. La disperazione nello sguardo di Zehra nasce soprattutto da questo.
Non appena sua sorella morì, il governo turco dichiarò che non ci sarebbero stati compromessi nella questione delle prigioni. Per il governo, il problema è stato risolto con l’assalto alle carceri. Se solo non ci fosse la fastidiosa attenzione del mondo esterno! Eppure era stato affermato per mesi che le carceri di massima sicurezza corrispondono agli standard europei. Ma carceri di massima sicurezza come quello di Stammheim, dove furono rinchiusi i militanti della Raf tedesca – e che sono il modello delle prigioni di tipo “F” in Turchia – sono state ugualmente criticate come inumane.
E soprattutto, dopo il trasferimento dei prigionieri nelle celle d’isolamento si è avverato ciò che tutti avevano temuto: l’isolamento viene utilizzato come punizione. Secondo il paragrafo 16 della legge turca anti-terrorismo, i prigionieri politici non possono avere contatti tra di loro. Poiché nelle carceri di massima sicurezza si trovano solo prigionieri politici, attualmente non si utilizzano gli spazi collettivi. Giornali, televisione e radio non sono permessi, avvocati e parenti hanno solo un accesso limitato.
I “pentiti”, invece, vengono premiati trasferendoli nelle carceri con celle collettive, che continuano a esistere. Naturalmente ciò smentisce l’affermazione del governo turco secondo cui le carceri di massima sicurezza rappresentano per i prigionieri un sostanziale miglioramento di fronte alle condizioni antigieniche e asociali nelle celle collettive. In realtà, l’isolamento viene impiegato come punizione all’interno del sistema punitivo contro i prigionieri politici.
Il giornalista turco Oral Calislar riassume così questo apparente paradosso: “All’estero bisogna sapere che in queste carceri di massima sicurezza non si trovano 10.000 terroristi militanti. La maggior parte di queste persone hanno distribuito volantini, si sono incontrate per discutere, hanno pubblicato giornali. In Turchia esiste una tradizione che considera l’opposizione come assolutamente sovversiva e dunque terrorista”. Calislar conosce questa pratica per ripetuta esperienza propria. “Sono stato condannato a una pena detentiva per aver pubblicato un’intervista con Abdullah Ocalan. Lo stesso principio continua nelle carceri. La dura repressione di ogni opposizione provocherà sempre nuovi scioperi della fame fino alla morte, perché il sistema non lascia alcuno spazio agli uomini e li punisce soltanto”. Infatti, il governo turco rifiuta ancora adesso ogni trattativa, benché alcuni intellettuali, l’ordine dei medici e gli avvocati si siano dichiarati disposti a mediare. Ma anche l’altra parte difficilmente cederà, poiché dopo l’assalto alle prigioni, a dicembre, gli uomini non hanno più niente da perdere. L’ordine dei medici stima che attualmente circa cento persone siano in pericolo di vita per lo sciopero della fame.
Nella piccola casa a Armutlu, il morale è sempre più basso. La padrona di casa è morta, i quattro sopravvissuti digiunano da più di 150 giorni. Senay è la sedicesima vittima dello sciopero. E sicuramente non l’ultima.

(da Jungle World del 25 aprile. Traduzione di Anselm Jappe. Dopo la stesura di questo réportage, altre quattro persone sono morte per lo sciopero, e il governo ha fatto solo minime concessioni alle richieste dei detenuti. Lo sciopero continua)