«Può capitare una volta sola nella vita di uno storico quello che è capitato a me». Così ci accoglie Angelo Del Boca, lo storico del colonialismo italiano che è stato anche un grande reporter di guerra: nel 1951 era in Tunisia, nel 1954 è stato il primo ad arrivare dopo i fatti di Algeri, poi ha seguito nell’Aurés tutti i combattimenti, il suo primo reportage ha avuto la fortuna di essere pubblicato da Jean Paul Sartre su Tempes Modernes. Ora ha pubblicato da poche settimane un nuovo libro dal titolo inequivocabile A un passo dalla forca – già esaurito e in seconda edizione (Baldini Castoldi Dalai editore, pp. 291, 17,50 euro), con tre prossime edizioni, in francese, in inglese (uscirà negli Stati uniti, curato da docenti della Harvard University) e in arabo. L’appassionato saggio storico, che si legge di filato come e meglio di un romanzo, è davvero unico: Del Boca infatti ha avuto fra le mani un documento eccezionale, la cronaca della colonizzazione italiana, delle sue atrocità e infamie, scritta da uno dei capi della resistenza, il patriota libico Mohamed Fekini.
Come ha trovato questo materiale e che sensazione ha avuto di fronte alle memorie del «nemico»?
Sono rimasto scioccato quando l’avvocato Anwar Fekini è venuto da me a chiedermi se volevo scrivere qualcosa sulle memorie del nonno. Conoscevo Mohamed Fekini, ma non sapevo delle sue memorie. Una cronaca straordinaria per la ricchezza delle informazioni tutte riscontrabili sulle fonti italiane. Non c’è mai un avvenimento che sia stato scartato dall’una o dall’altra fonte, gli avvenimenti combaciano sempre, certo su versioni che spesso sono diverse se non contrapposte, tra quelle dell’aggredito e quelle dell’aggressore. La fortuna è stata quella di avere incontrato Anwar Fekini, un avvocato internazionale che si è preoccupato anche della promozione del libro a livello internazionale.
Sorprende che si tratti di un testo che, pure di fronte ad orrori contro i libici, non mostri mai rancore e appaia lucidissimo e politico…
Sì. E con un lessico prepotente e duro, ma non c’è mai una parola d’odio contro l’Italia. Fa invece contestazioni molto precise. Il mio libro è stato un confronto continuo tra quello che sapevo e avevo scritto e le nuove informazioni dell’altra parte. Una sorpresa continua. La parte più importante di questa testimonianza è che quando l’Italia ha concesso alla Libia un parzialissimo statuto di diritti, Mohamed Fekini è stato tra i difensori di questa esperienza, grazie anche al figlio Hassan che lui aveva mandato a studiare a Torino giurisprudenza. Dove si era innamorato della nostra società, da voler stabilire un ponte tra la civiltà araba e quella italiana. Ci sono due lettere, presenti nel libro, che lui scrive al padre nelle quali dice che l’Italia non è fatta solo di gente venuta a perseguitare il popolo libico, ma di persone molte aperte e intelligenti e quindi «cercate di fabbricare i pilastri di questo ponte». Al punto che Hassan morirà cercando di sedare una rivolta nel Gebel su incarico degli italiani, contro il parere del padre. Quando Mohamed Fekini avrà un singolare scambio di lettere con il generale Rodolfo Graziani, ricorderà quanto sia grande la sua disponibilità – malriposta – verso gli italiani, da avere perso un figlio morto per la loro causa.
Com’è potuto accadere che il generale incaricato della repressione della rivolta libica e il capo degli insorti si scambiassero lettere?
Quando Graziani si trova nel 1922 a dover riportare i berberi sul Gebel, sa di trovarsi di fronte un nuomo che la guerra la sa fare, il primo ostacolo è lui, Mohamed Fekini, che ha migliaia di armati, con cannoni e mitragliatrici. Fekini è l’uomo di Sciara-Sciat, vale a dire della storica sconfitta degli italiani nel 1911, quando muoiono in combattimento 550 militari, bersaglieri e alpini. Una battaglia che Fekini organizza con le truppe montanare che combattano cavalcando in sella, le stesse popolazioni che il console italiano Galli descriveva come «le popolazioni della montagna che non si interessano di problemi poliici», quelli ci hanno sconfitto in poche ore. Graziani capisce di essere in inferiorità numerica e chiede al comando di Tripoli di inviargli il quarto battaglione eritreo. In attesa che arrivi il quarto battaglione Graziani decide di fermare l’avversario, famoso per essere uomo colto, mandandogli delle lettere. E questo dura otto-nove giorni, aspettando il quarto reggimento. In più c’è il ghibli molto forte che ostacola i combattimenti. Così avviene lo scambio di una decina di lettere. Analizzandole si vede l’enorme differenza tra i due personaggi. Da una parte c’è un uomo abituato a scrivere, era stato prefetto dell’amministrazione ottomana, che scrive in bello stile, con citazioni dal Corano e da scrittori classici; dall’altro c’è un soldataccio che non sapeva scrivere. Ricordiamo che più tardi Graziani sarà il protagonista come vicerè delle stragi di massa in Etiopia e ministro della guerra della Repubblica di Salò. C’è una lettera belllissima. Graziani insieme alla sua lettera un giorno fece «recapitare» con un aeroplano anche delle bombe che distrussero la casa di Fekini. La risposta di Mohamed Fekini fu serena: «Ho ricevuto con la lettera anche le sue bombe, questo non è lo stile delle persone civili» e continuava: «noi ci esponiamo con i nostri poveri mezzi alla vostra aviazione e mezzi militari smisurati, ma non abbiamo paura perché siamo veri uomini». Non aveva motivo particolare per ribadirlo, se non il fatto di sapere che queste parole avrebbero fatto infuriare Graziani, che si considerava il solo «vero uomo».
Ci troviamo insomma di fronte ad un politico?
Che nel periodo della tregua che va dal 1916 al 1920, era stato nominato anche consigliere del governo di Tripoli. L’Italia è andata in Libia pensando di avere di fronte analfabeti, subumani, persone senza cultura. In realtà c’erano molte famiglie che mandavano a studiare i figli al Cairo, a Costantinopoli, a Tunisi o alla Sorbona. I figli di Mohamed Fekini studiavano alla Sorbona.
Per decenni la nostra storia ha cancellato le atrocità «innovative» che abbiamo compiuto in tutta la campagna di Libia che va dal 1991 al 1930, quando la resistenza in Tripolitania ripara in Algeria, e quella in Cirenaica viene sconfitta e Omar Al Mukhtàr è impiccato nel 1932 dagli italiani. Senza parlare della Seconda guerra mondiale. Com’è potuto accadere che venisse rimosso questo ruolo di vera e propria anticipazione storica dell’orrore del ventesimo secolo?
Eppure è accaduto. Le vittime, solo in Libia, sono state centomila. Una cifra che non dice molto, se si pensa che le vittime etiopiche sono state trecentomila. Ma se rapportiamo la cifra alla popolazione del 1911 – i libici erano allora 800mila secondo i censimenti turchi e italiani – vuol dire che un libico su otto è morto combattendo per liberare il proprio paese. Ma c’è un secondo dato importante. Per accelerare la riconquista, dopo lo sbarco del 1911 nel 1915 avevamo perso tutto per la guerra mondiale e la grande rivolta araba che ci aveva ricacciato sulla costa, abbiamo impiegato altri 15 anni. Gli arabi dunque sapevano difendesri, la guerra veniva resocontata in modo discreto, e la facevamo fare agli eritrei, dissanguando un altro paese africano. Per arrivare a sconfiggere i libici bisognava cancellare in Tripolitania i sette-otto capi che guidavano la resistenza libica che non riuscivamo a prendere o a piegare; e in Cirenaica bisognava fermare una volta per tutte Omar al Mukhtàr, quasi l’inventore della guerra di popolo. Il governatore Badoglio capisce che nessun generale, nemmeno Graziani che viene sconfitto, può vincere una tale guerra. Allora comunica a Graziani con una lettera l’intenzione di «spopolare il Gebel» fino alla Marmarica, portate via tutta la popolazione in modo da togliere a Omar al Mukhtàr la possibilità di trovare cibo e armi – perché anche le truppe libiche che combattevano con gli italiani lasciavano cadere pallottole inesplose perché i guerriglieri potessero utilizzarle. Circa centomila persone vengo così trasferite per 1.100 chilometri con la neve che imperversa e, come prova un documento storico italiano, quelli che non riuscivano a camminare o si ammalavano venivano eliminati sul posto. Non sappiamo in quanti sono morti così. Questi centomila vennnero portati in 13 campi di concentramento nella zona più desolata, la Sirtica, sotto Bengasi fino a Sirte. Dove 40mila persone muoiono per fame, malattie e esecuzioni di massa: ogni giorno c’erano 30-40 fucilazioni di persone che protestavano o che tentavano di fuggire. Durante questa guerra vennero usati per la prima i gas asfissianti (iprite e fosgene), e c’è il generale Ciconnetti che invia un suo rapporto sulla gente terrorizzata dalla morte che veniva dall’aria. Poi usavano il sistema «terra bruciata» con le bombe incendiarie, prima dell’hollywoodiano napalm, bruciando tutti i campi di cereali della zona vicino a Tripoli. Con un uso nuovissimo dell’aviazione: per la prima volta al mondo, nel 1911, noi usiamo gli aerei come ricognizione del nemico, e subito dopo lanciando i primi proiettili con rudimentali raid, con bombe da due chili lanciate a mano dall’osservatore che viaggiava con il pilota. Vere anticipazioni. Come le deportazioni in Italia. Dopo la sconfitta italiana di Sciara-Sciat il primo ministro Giolitti e il comandante Caneva perdono la testa. Viene ordinata la deportazione in molte isole italiane, 13 punti di deportazione tra cui Favignana, le Tremiti, Ustica, di 4mila persone, tutti civili, anziani e perfino bambini. Altre quattromila persone vengono uccise per rappresaglia, per strada. Poi, altra novità nel mondo arabo, abbiamo innescato un conflitto interetnico, mettendo arabi contro berberi. E non era difficile, c’erano contrasti sempre aperti, ma mai conflitti armati o odi, come dimostra lo stesso Fekini che aveva nominato un berbero come amministratore prima della sua casa e poi di una città.
Nel libro compare Turati che in parlamento accusa: parlate di civilizzazione, io sento puzza di forca. Poi ci sono Giolitti, Badoglio, infine Mussolini con la spada dell’islam. Qui si è consumato l’humus fondativo di molta nostra storia…
Ingiustamente rimossa. La storia coloniale è stata considerata minore, marginale. Era la storia d’Italia. Renzo De Felice commette l’errore di minimizzare il Mussolini africano, al punto che, per parlare dell’uso dei gas, usa una riga e mezza e lo fa citando quello che ho scritto io. Non ha avuto nemmeno il coraggio di trovare le sue fonti, liquidando così il Mussolini assassino in 17 parole.
Il libro, incredibilmente, finisce con una ballata in endecasillabi, riepilogativa della narrazione storica. Perché questa sintesi in versi?
Ho voluto trasmettere l’emozione continua con cui l’ho scritto, pensando alle guerre attuali e al materiale affascinante che avevo di fronte. Quando sono arrivato alla fine della scrittura, con un ritmo narrativo dovuto agli avvenimenti che trattavo, ho pensato che dovevo separarmi dal libro. E per consegnarlo al lettore dovevo comunicarglielo in versi. Come scrivere altrimenti il gesto della moglie di Fekini che porge gocce d’acqua nella bocca dei morenti durante la feroce traversata del deserto?