In questi giorni chi si occupa di economia internazionale cerca una spiegazione convincente di quel che è accaduto sui mercati di tutto il mondo tra il 27 febbraio e il 3 marzo. La borsa di Shanghai, piccola, male organizzata, speculativa, riservata solo ai cittadini cinesi e priva quasi di investitori istituzionali, priva anche di controlli moderni ed efficienti ( più o meno simile alla borsa di Milano degli anni cinquanta) è caduta del 9% in un giorno e si è, almeno in apparenza, portata dietro l’ intero sistema delle borse mondiali, compresa la massima, la borsa americana. Come è potuto succedere? Può succedere di nuovo, nel prossimo futuro? Sono domande che, legittime in ogni momento, divengono impellenti nella situazione finanziaria mondiale attuale, che è il portato di alcuni di anni di liquidità straordinaria, creata dalle politiche monetarie americana e giapponese. e dalla enorme attività delle banche internazionali Ne è risultato, almeno fino al 27 febbraio, uno schiacciamento radicale dei differenziali tra i rendimenti dei buoni e cattivi rischi di credito, una virtuale eliminazione del premio per il rischio e della volatilità. Cosa è dunque accaduto perché la famosa farfalla che batte le ali a Shanghai determinasse conseguenze del tutto spropositate a migliaia di chilometri di distanza? Innanzitutto, la caduta della borsa cinese è stata vista come segnale di difficoltà della economia cinese, e non come un incidente facile a verificarsi in un mercato piccolo male organizzato incontrollato e speculativo. L’ economia cinese è cresciuta tanto in fretta e tanto irritualmente rispetto ai modelli noti, da restare anche oggi per la maggior parte degli osservatori non cinesi (e anche per molti cinesi) un oggetto misterioso, avvolto in un velo di impenetrabilità. Le esportazioni e importazioni cinesi hanno ormai raggiunto quelle del Giappone, i cinesi investono capitali ovunque, ma come funzioni veramente l’ economia di quel paese pochi al mondo possono dire di saperlo. Onde l’ incertezza prodotta dalla notizia del crollo di borsa. Bisogna dire che il crollo si è comunicato prima alle borse europee ed americana e solo il giorno dopo a quella giapponese. Questa, probabilmente, ha reagito alle notizie che venivano da Wall Street, avendo appreso senza troppo timore quelle da Shanghai del giorno prima. I fusi orari sono determinanti per capire il corso degli eventi. Quando le borse asiatiche chiudono, quelle europee aprono, e Wall Street apre poco prima che chiudano le borse europee. Quindi, l’ Europa apre sulla chiusura di Tokyo (e Shanghai) e chiude sull’ apertura di Wall Street. Perché Wall Street e le borse europee hanno reagito con tanta urgente paura? E’ stata, si dice, una concatenazione di cause coincidenti: il consueto guasto elettronico al meccanismo delle contrattazioni, che spesso accade nel peggiore dei momenti, si è manifestato anche quesa volta a New York. Il vecchio guru Greenspan ha parlato di incombente recessione americana proprio quel giorno, e proprio da un uditorio asiatico collegato per ponte radio e le sue parole sono rimbalzate altrove con qualche esagerazione aggiunta. Una notevole massa di operatori americani lavora da almeno tre anni con denaro preso a prestito in Giappone a bassissimo costo ma allo scoperto rispetto al rischio del cambio, fidando nella bassissima volatilità dei tempi recenti. Visto sui propri schermi il crollo di Shanghai e pensando che avrebbe determinato una corsa allo yen e udite le previsioni negative di Greenspan suffragate da dati altrettanto negativi rilasciati sull’ economia americana da fonti diverse, come il disagio sul fronte dei prestiti a debitori scadenti e le difficoltà perduranti sul mercato immobiliare, la caduta degli ordini di beni durevoli, questi operatori hanno pensato bene di chiudere le transazioni in essere e restituire alle banche giapponesi i soldi presi a prestito. Quanto vale la massa dei prestiti fatti dai giapponesi ai mercati, il cosiddetto carry trade? Il ministro Watanabe la stima attorno ai 170 miliardi di dollari. Ben poca cosa rispetto al volume delle transazioni totali di Wall Street, ma abbastanza da poter essere una massa pericolosa, se si muove insieme. Che siano state le operazioni di chiusura del carry trade o altro, è certo che la volatilità sui mercati, a partire dal 27 febbraio, è a un tratto cresciuta a livelli che non si vedevano da molti anni, persino superiori a quelli dell’ agosto 1998, ad esempio, quando la crisi russa fece crollare la famosa LTCM, un fondo di arbitraggio che operava su enormi masse di denaro preso a prestito, sostenendo, ad esempio, i corsi del debito pubblico italiano ( per fortuna la crisi accadde dopo che si erano fissati irrevocabilmente i tassi di cambio delle monete che sarebbero confluite nell’ euro). Nel mio ultimo articolo, due settimane fa, avevo paventato proprio un evento del genere, che avrebbe portato come prima conseguenza ad una inversione della tendenza del corso dello yen, sottovalutato in maniera radicale appunto per il deflusso continuo di capitali di prestito verso le monete principali, dollaro ed euro. Questo è immediatamente accaduto, a partire dal 27 febbraio. Il rientro dei capitali di prestito ha indotto una rivalutazione di oltre il 2% in pochissimo tempo, che non si è ancora riassorbita. Bisogna, nell’ analizzare questi eventi, sottolineare come, al contrario di quanto accadde nel 199798, non sono state le banche giapponesi a diminuire drasticamente i prestiti agli stranieri ma i loro debitori a decidere improvvisamente di farlo. I giapponesi certo non volevano che la propria moneta si rivalutasse, diminuendo a un tratto la competitività degli esportatori nipponici e inducendo la discesa delle loro azioni alla borsa di Tokyo. Il differenziale tra tassi giapponesi e tassi americani o australiani o europei è ancora quello del passato recente. Chi volesse imbastire una operazione di carry trade potrebbe farlo benissimo, dal punto di vista del suo finanziamento. Quel che è cambiato, è bene notarlo, è la fiducia del debitore nella sua capacità di chiudere l’ eventuale operazione vantaggiosamente, cioè il timore di poter essere costretto a pagare molto di più gli Yen da restituire e di rivendere con perdite azioni obbligazioni, prodotti derivati o altro, acquistati col denaro giapponese preso a prestito. La preferenza per la liquidità, il desiderio di esser liberi da impegni incerti, è venuto dunque da parte dei debitori, e non, come accadde nel 1998 o anche nel settembre 2001, dei creditori. E’ una differenza sostanziale, che rende probabilmente meno pericoloso l’ episodio di crisi dei mercati. Una parte cospicua dei debitori, infatti, si trovava in guadagno al momento della crisi e ha deciso di liquidare per realizzare i guadagni. Sono tutti professionisti e hanno bisogno di mostrare ai propri investitori guadagni rapidi. Per questo, almeno in ambienti solo moderatamente informati, non si sente parlare di gruppi finanziari in difficoltà, come avvenne invece tra agosto e settembre del 1998 o dopo l’ 11 settembre 2001. Il “martedì grigio”, come è stato subito battezzato il 27 febbraio, con i successivi assestamenti fino al 3 marzo, ha tuttavia avuto qualche importante effetto. Innanzitutto la volatilità è discesa dai picchi raggiunti in quei giorni, ma è assai maggiore di quella dei mesi precedenti. Questo deve avere come effetto una continuazione del rientro dalle operazioni di carry trade, perché esse sono significative dal punto di vista dei guadagni, solo se non si rendono necessarie costose coperture a termine, solo se si ha fiducia nella stabilità del corso dello yen. Ma possiamo escludere ulteriori rivalutazioni, a breve scadenza, della moneta giapponese? Non pare prudente farlo, perché il mese di marzo, tradizionalmente,vedeva il rientro dei capitali di prestito e le vendita di posizioni in titoli da parte delle banche e imprese giapponesi, che chiudevano proprio a marzo i propri bilanci. Ma anche nei mesi seguenti l’ incertezza è destinata a durare. Una lettura del Beige Book della Federal Reserve, uscito in questi giorni, non rassicura molto sul futuro immediato dell’ economia americana. Il rallentamento continua, la produttività aumenta assai poco, anche perché cresce l’ occupazione ma cresce meno il pil, i guai del mercato immobiliare sembrano trasformarsi da una caduta dei prezzi delle case a difficoltà delle istituzioni finanziarie che hanno prestato, a tassi elevati, a gente poco affidabile, che ora ha difficoltà a restituire il denaro ricevuto spesso usato per comprare beni di consumo. Il martedì nero ha anche conseguenze sull’ economia giapponese, perché ormai lo yen ha imboccato la via della rivalutazione, e questo continuerà ad avere effetti negativi sul corso delle azioni delle imprese esportatrici. Le autorità monetarie, giapponesi e americane, certamente non possono più indursi a rincari del denaro. Questo è positivo, ma non annulla la tendenza dello yen alla rivalutazione. Così torniamo all’ economia cinese. Se da questa dipendeva il tono delle esportazioni mondiali, vista l’ importanza della Cina nel commercio internazionale per paesi come Giappone e Germania, che esportano macchine per la costruzione della capacità industriale cinese, e per gli esportatori di materie prime di Africa, Medio Oriente e America Latina, dobbiamo dedurne che, in presenza di un rallentamento americano, l’ importanza della domanda cinese di materie prime e prodotti industriali aumenta ulteriormente. Non è la borsa di Shanghai a interessarci perché lì ci sono i soldi di tutto il mondo. Al contrario, essa ci interessa lo abbiamo già detto come termometro dell’ economia cinese. Abbiamo speranzosamente spiegato che si tratta di un cattivo termometro, perché il collegamento con l’ economia reale è vago. Si è detto infatti che la caduta del martedì grigio è stata dovuta alla minaccia della introduzione di una tassa sui guadagni di capitale. Ma le autorità cinesi hanno anche minacciato di colpire gli investimenti fatti a debito in attività non previste dalla programmazione nazionale come bisognose di incremento. Anche in Cina, come avvenne un paio di anni fa in America, il problema è quello di riuscire a frenare il galoppo senza azzoppare il cavallo. Gli americani sembra ci stiano riuscendo. Ai cinesi finora non è riuscito. Hanno provato da almeno un anno, ma il tasso di sviluppo del pil è cresciuto ulteriormente. Ora le assise del partito di governo incombono e le varie fazioni conducono strategie che a noi restano per lo più arcane.