I consiglieri di Jospin: Berlusconi fa male all’economia

PARIGI

E se il programma economico del governo Berlusconi – riduzione delle imposte, con particolare attenzione per il tasso marginale del decile più alto, abolizione della tassa di successione – non fosse solo ingiusto (cosa che non sembra preoccupare la Casa delle Libertà), ma anche decisamente anti-moderno e anticipatore di un avvenire di sclerosi economica? La tesi, che non fa riferimento a Berlusconi ma all’evoluzione dell’imposta progressiva sul reddito in Francia e negli Usa nel XX secolo, risulta da un saggio dell’economista Thomas Piketty, pubblicato nell’ultimo rapporto del Consiglio di analisi economica del primo ministro francese Jospin, dedicato alle “Ineguaglianze economiche”.
Il rapporto, sia con il saggio di Piketty che con lo studio di Tony Atkinson, Michel Glaude e Lucile Olier sulla formazione delle “ineguaglianze economiche”, vuole dimostrare che non esiste – anzi – alcuna correlazione necessaria tra aumento delle ineguaglianze sociali e crescita della nuova economia, e che la mondializzazione attuale non implica affatto la scelta del “modello americano”. Al contrario: una crescita delle ineguaglianze come è avvenuta negli Usa negli ultimi due decenni del XX secolo, in assenza di una correzione generata dalla progressività dell’imposta sul reddito, porta a una concentrazione dei patrimoni nelle mani di pochi, a una situazione da “rentier” di fine ‘800, nel lungo periodo fattore di “sclerosi economica e sociale”. La forza dell’Europa, da questo punto di vista, è appunto quella di aver mantenuto finora la coesione sociale, invece che correre dietro alle scelte statunitensi.
Secondo Piketty, è stata proprio l’imposta progressiva sul reddito ad aver evitato alla Francia di ritornare alla concentrazione patrimoniale esistente prima della guerra del ’14. L’imposta progressiva ha due effetti: uno statico, il più noto, che serve a evitare scarti troppo grandi di reddito tra i più ricchi e i più poveri; uno dinamico, poiché limita la capacità di accumulazione di capitale dei più ricchi e riduce così la concentrazione futura dei patrimoni. E una maggiore eguaglianza favorisce una maggiore dinamicità dell’economia, poiché permette l’emergenza di nuove generazioni di imprenditori e un più rapido rinnovamento dell’élite economica. Piketty ricorda che negli Usa il presidente Roosevelt aveva giustificato proprio con questo aspetto dinamico l’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito. Proporre oggi, come negli Usa e in Italia, una riduzione delle imposte per il decile più ricco, significa preparare un futuro “di ritorno alle ineguaglianze patrimoniali dell’inizio del XX secolo, e come corollario un rischio di sclerosi economica e sociale”.
Negli Usa non si sono ancora del tutto sviluppati gli effetti di lungo periodo della politica iniziata da Reagan, che ha invertito il trend fissando un tasso marginale progressivo per il decile più alto inferiore a quello europeo. Nel quadro della Victory tax, nel ’42 il tasso era stato portato al 91%, e vi si mantenne fino al ’64, per rimanere poi intorno al 77%, fino a quando Reagan non lo ha abbassato al 50% nell’81 e al 28% nell’86 – poi Clinton l’ha rialzato al 39,6%. In Gran Bretagna c’è stata un’evoluzione simile, con Thatcher che ha abbassato il tasso superiore dall’83% al 75% nel ’79, poi al 60% nell’84 e al 40% nell’88, livello che Blair non ha toccato.
Le ineguaglianze non si riducono da sole, come ottimisticamente sostengono i seguaci della “curva di Kuznets”. Si tratta di una scelta eminentemente politica. In Francia, la parte del decile superiore nel reddito totale è passata da circa il 45% di prima della Grande guerra al 32-33% della fine degli anni ’80. Non sono bastate le guerre con il loro strascico di distruzioni (anche di patrimoni), la grande inflazione, i fallimenti della grande depressione ecc., ma centrale è stato appunto il ruolo dell’imposta progressiva sul reddito (e di quella sulle successioni, comunque meno determinante perché colpisce una volta per generazione, mentre l’altra cade tutti gli anni). E se si mettono in parallelo le statistiche sul ritmo di crescita economica e sul tasso marginale di imposta sul reddito per il decile più alto, si scopre che non esiste correlazione tra tasse basse e sviluppo economico: durante i cosiddetti “trent’anni gloriosi” (’45-’75) caratterizzati da una forte crescita economica, tutti i paesi sviluppati hanno applicato dei tassi superiori di imposta sul reddito dell’ordine del 60-70% (fino al 90% negli Usa negli anni ’50 e ’60).
In Francia si passò, in meno di dieci anni, da zero imposte sul reddito di prima del ’14, al 90% del ’24, poi il tasso marginale venne abbassato al 40-45% a fine anni ’20, per risalire e stabilirsi al 60-70% dopo il ’45. Uno choc, in effetti, che però ha avuto ripercussioni molto positive sulla crescita economica. Oggi, la Francia ha ritoccato al ribasso i tassi: quello superiore è al 52,75% e sarà al 52,5% nel 2002. Negli Usa, l’abbassamento massiccio dei tassi superiori di imposta sul reddito di Reagan, “ha favorito la costituzione accelerata di patrimoni estremamente elevati, e questa tendenza all’ampliamento delle ineguaglianze patrimoniali avrà in futuro un’importanza determinante, ivi compreso nel caso di stabilizzazione delle gerarchie salariali”. E aggiunge Piketty: “questa questione è importante per l’Europa, dove le pressioni per seguire l’esempio fiscale americano sono diventate particolarmente forti all’alba del XXI secolo. La prospettiva storica invita all’estrema prudenza nei confronti di un tale orientamento”.