I complici dei torturatori

«Un vasto arazzo intriso di menzogne di cui ci alimentano ogni giorno». Così Harold Pinter nel suo mirabile discorso di accettazione del Nobel ha descritto la marea di lordure, di assurde finzioni, di macabre baggianate che dal centro del grande impero d’occidente dilaga sul mondo intero dopo il 9/11 con la guerra d’aggressione all’Afganistan e all’Iraq e prima ancora in sessant’anni di «conflitti a bassa intensità» e di sostegno militare ed economico esteso alle peggiori e più sanguinarie dittature in ogni angolo del pianeta.
Dalla Grecia all’Uruguay, dal Brasile al Paraguay , dall’Indonesia ad Haiti, dalla Turchia alle Filippine, dal Guatemala al Salvador, dal Cile al Nicaragua. Mai come negli ultimi giorni la menzogna come pane quotidiano è stata servita sulle nostre mense dall’amministrazione Usa con la connivenza dei mass media internazionali e nazionali, con il consenso o il silenzio-assenso di governanti e di quegli stessi uomini politici di opposizione che continuano ad applicare la sordina ad ogni loro labile vagito di protesta. L’esempio più recente è stato fornito dal trattamento riservato su quasi tutti i media al discorso e alla breve conferenza stampa del presidente statunitense il 12 dicembre nella sede del Consiglio per gli affari mondiali di Filadelfia: tra le domande predisposte ad arte, altre sono emerse che hanno deragliato il treno della retorica presidenziale sulla «strategia della vittoria in Iraq» verso terreni e tematiche su cui finora gli era stato imposto di non avventurarsi in pubblico. Contravvenendo alla ferrea regola del Pentagono di ignorare il numero di morti tra civili e resistenti iracheni («We don’t do body counts», non facciamo conteggi di cadaveri, ebbe a dire nel 2003 il generale Tommy Franks, comandante supremo in Iraq) il capo dell’esecutivo ha sparato la cifra di trentamila ammazzati sui 2.140 caduti statunitensi. Nessuno gli ha chiesto da dove avesse tirato fuori queste cifre ovviamente approssimative per difetto; più di un anno fa, prima cioè degli eccidi a Fallujah-Guernica, i dati raccolti dall’autorevole rivista medica britannica The Lancet, poi corroborati dalla Croce Rossa e Verde, dall’Organizzazione mondiale della sanità e da altri enti come Human rights watch international indicavano un bilancio approssimativo di 100.000 morti tra i civili; il Pentagono il conteggio dei cadaveri lo fa e come, per raggiungere un quoziente doppio di quello nella guerra in Vietnam che era di uno a venti ed ora è di uno a quaranta, quaranta morti iracheni per ogni caduto Usa, il che dovrebbe portare ad un minimo di 85.000 le perdite tra sciiti, sunniti e kurdi. I mass media hanno poi dato ampio risalto alle parole del presidente sul trionfo di qui a poche ore della democrazia parlamentare in Iraq e hanno ignorato una delle battute più minacciose mai pronunziate da George Dubya Bush: «La lunga durata di questa guerra dovrà richiedere cambi di governi in altre parti del mondo» (Siria? Iran? Venezuela? Spagna?).

Le mezze verità ufficiose e le falsità ufficiali più clamorose sono state registrate da un paio di settimane a questa parte sulla tematica ben più scabrosa della tortura, diventata in tutte le sue varianti inclusa la «extraordinary rendition», prassi consacrata dal ministero di giustizia, dal Pentagono e dalla Cia. «We do not torture», noi non torturiamo, ha invece proclamato Gorge W. Bush a Panama City e Naomi Klein è stata l’unica a ricordare sul Guardian del 10 dicembre che lo smemorato presidente ha proclamato la sua sdegnata smentita a poche decine di chilometri dalla località dove le forze armate Usa avevano fondato e gestito dal 1946 al 1984 la «School of the Americas», la più famigerata scuola di addestramento alla tortura, agli assassini mirati degli squadroni della morte nei due emisferi. La scuola è stata poi trasferita a Fort Benning nello stato della Georgia e continua a formare e sfornare i quadri del terrorismo di stato Usa.

La verità è che violenza e tortura sono americane come la torta di mele e sono state sempre praticate anche al di fuori di emergenze belliche, ad esempio in molti dei carceri di sicurezza degli Stati uniti. Cosa c’è allora di nuovo sotto il sole? C’è, dopo il 9/11, l’intento di proiettare sullo schermo mondiale un’immagine più ferina e spietata dell’impero. C’è la finzione sistemica come strumento ossessivo del potere: il «noi non torturiamo» di Bush e la rivoltante ridefinizione della tortura del ministro alla giustizia Alberto Gonzales – «misure coercitive che non compromettano irrimediabilmente l’integrità fisica dei prigionieri o portino alla loro morte». Ma le sevizie, le mutilazioni, la riduzione allo stato vegetale di presunti terroristi, la loro «estinzione» devono pur andare avanti fuori dalla giurisdizione di qualche antiquato magistrato statunitense; e allora viene consolidata ed intensificata la procedura delle «extraordinary renditions» volta a sottoporre i prigionieri a più estreme e letali torture in paesi satelliti e in basi militari all’estero. Nella sua tournee europea il segretario di stato Condoleezza Rice si è irritata per le avverse reazioni della stampa e di qualche governo. Non aveva tutti i torti. L’Unione Europea aveva dato un esplicito assenso alle «renditions», il Regno unito, la Germania, l’Italia e non solo la Romania e la Polonia avevano permesso agli aerei della Cia con i loro tristi carichi umani di fare uso illimitato di aeroporti civili e basi Usa sui loro territori. Senza negare alcunché la signora Rice ha lasciato cadere qualche battuta diplomatica, blanda ed evasiva. «Marcia indietro», «Svolta storica della politica di Washington» hanno titolato i nostri giornali. Pochi giorni dopo esplode il caso Mohammed Daki, espulso e consegnato dal ministro Pisanu ai torturatori e ai boia marocchini. Eccellenti i precedenti: ultimo quello di Binyam Mohammed sottoposto per anni in Marocco alla tortura dello «strappado», colpito con lame di rasoio al torace e al pene, sempre alla presenza di un funzionario della Cia. Il ministro degli interni lo ha fatto applicando l’art. 3 del decreto legge 155 approvato lo scorso luglio in parlamento anche con i voti del centro sinistra; ha ignorato che lo stesso governo Blair aveva condizionato analoghe espulsioni a esplicite garanzie dei governi dei paesi di ricezione sul rispetto dei diritti umani degli espulsi e che la Camera dei Lords aveva respinto la validità giuridica di confessioni rese sotto il sospetto di coercizioni o torture. E’ deliberatamente incorso in una violazione sostanziale degli articoli 26 e 27 della Costituzione; ha ignorato sentenze della Corte di cassazione come quella sul caso Song Zhicai o l’altra rafforzata dalla Corte costituzionale sul caso Venezia. L’espulsione, quindi come estradizione abnorme, come «extraordinary rendition», in stretta osservanza delle direttive di Washington. Qualche protesta della sinistra radicale, ma assordante il silenzio dei Prodi, dei Fassino e Rutelli. Non è forse il caso di impegnarsi nelle prossime elezioni a sostenere solo quei candidati che condannino esplicitamente ogni complicità con la tortura e che adottino la formula Zapatero sul ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq?