I “cekisti” al potere (Inchiesta)

Una camicia su un pantalonaccio di cotone. Nikolaj veste come capita o almeno questo vuole farci intendere. Ha i piedi in scarpe che hanno visto tempi migliori, di quelle che un tempo dovevano essere un must per i russi in Occidente. Sono di cuoio intrecciato, biondo e leggero. Scarpe che si vedono nelle vetrine di Bally.
Non è stato semplice rintracciare Nikolaj. Lo incontriamo al termine di un rituale più ridicolo che noioso. Due ore in auto a girare in tondo in una periferia senz’anima, prima di infilarci nel garage di un albergo a ore.
La stanzuccia d’albergo è di una disarmante malinconia. Le pareti sembrano di cartone più che di cartongesso. In tre, ci rigiriamo a stento in tre metri quadrati intorno a un tavolo dove Nikolaj ha fatto sistemare un bricco di caffè meno gradevole della cicuta e una pila di sandwich dal sapore – anche loro – di cartone. Nikolaj chiude le tendine della stanza, stacca con un gesto deciso la spina a muro del telefono, separa il suo cellulare dalla pila e va diritto al nocciolo della questione per cui siamo qui.
«Mi sono laureato all’università di Mosca, all’Istituto in cui si è diplomato Euvgeny Maksimovic Primakov. Ho sognato il Kgb da quando ero bambino. E quando finalmente sono entrato a Krasnoznamenniy, la scuola di intelligence del Primo Direttorato, l’Urss mi si è aperta sotto i piedi» .
Siamo qui per rispondere a un interrogativo: chi sostiene oggi Putin? Vladimir Vladimirovic sembra volersi sbarazzare con modi alquanto spicci della gravosa ipoteca degli oligarchi (Berezovskij, Abramovic, Mamut) che lo hanno spinto verso la Presidenza. Chrystia Freeland, già capo dell’ufficio di corrispondenza di Mosca del Financial Times e autrice di Sale of the Century ( «La svendita del secolo» ), vede un Putin «prigioniero» . «Diciamo che liberarsi degli oligarchi, ammesso che lo si voglia, non è cosa semplice – ci spiega – Non penso che Putin intenda farlo. Gli oligarchi gli servono. E su di loro Putin può facilmente esercitare la pressione rappresentata dalla minaccia di controlli fiscali o di polizia. L’obiettivo di Putin è spostare il consenso degli oligarchi. Spezzare il loro antico vincolo di fedeltà con il “clan Eltsin” e costringerli a rinegoziare un nuovo patto con lui. In questo senso, lo scontro con Berezovskij e Gusinskij va letto come un avvertimento a chi dovesse pensare di non allinearsi con il nuovo Cremlino» .
Il Burattino, per così dire, si sta liberando dei fili del Burattinaio, ma con quale forza, con l’appoggio di chi e di che cosa? Soltanto uno sprovveduto – e Putin non lo è – potrebbe pensare di “paralizzare” quel “braccio di potere” politico e finanziario rappresentato dagli oligarchi senza poter contare su un altro “braccio”, su un altro “blocco”, magari ancora non visibile, non emerso, non esplicito. La ragione dice che nel conflitto, che il Presidente della Federazione Russa ha ingaggiato con il vecchio potere eltsiniano, l’unico network di potere che Vladimir Putin può mettere in campo è il Kgb. E’ il solo mondo, la sola cultura e regole e ordinamento e metodi che Putin conosce e di cui ha fiducia. Quel servizio segreto è un mondo che non è andato in pezzi nella fine della Grande Nazione, Velikaja Rossia. Al contrario, è una «comunità» che ha gelosamente mantenuto e coltivato l’eredità “cekista” venerandone la memoria negli uomini (Feliks Edmundovic Dzerzinskij, Jurij Vladimirovic Andropov, Vladimir Aleksandrovic Kriuckov), nei simboli (la spada e lo scudo), nel modo di appellarsi gli uni con gli altri, cekisti. E’ un sistema che è riuscito a «modernizzarsi» nel critico vortice della fine dell’Unione Sovietica combinandosi e fondendosi, in virtù dell’assenza di una legislazione adeguata e di una cultura della legalità tipica dell’éra sovietica, con la criminalità organizzata e con uno Stato ultraburocratizzato. Si può leggere così il periodo pietroburghese di Putin politico e amministratore. Ci chiediamo: è dunque questo “ibrido” di cekisti, mafiosi, burocrazia che sorregge oggi il piccolo Zar del Cremlino?
Nikolaj può aiutarci a capire, se vuole. Per capire, è utile ascoltare la sua storia.
«Era la primavera del 1990 e stavo per entrare in Accademia. Fui avvicinato da uno dei miei ufficiali superiori. Mi disse che il Kgb si stava attrezzando a una nuova perestroika. Che il Paese era al collasso e presto avrebbe dovuto affrontare una guerra civile. Ricordo ancora le parole dell’ufficiale: ricordati ragazzo, quello di cui oggi sei fiero, lo scudo e la spada del Kgb, da domani potrebbero diventare la tua vergogna. Ci mise un po’ per arrivare al punto. Ma quando arrivò al dunque, fu chiaro: “Ti offriamo di uscire dalla struttura ufficiale del Kgb, per entrare in una struttura clandestina, dove lavorerai con i migliori tra i migliori. I tuoi files personali verranno rimossi dagli archivi. Nessuno saprà mai del tuo passato. Diventerai un agente clandestino. Comincerai a lavorare per la Patria. Contro chi la vuole distruggere. Sì, proprio così, disse: “Per la Patria”. Era confortante per me sentire ancora il suono di quella parola dimenticata, disprezzata. Mi presi qualche giorno di vacanza. E accettai. Non avevo scelta» .
C’è qualcosa della storia di Nikolaj che sembra essere un paragrafo o lacerto della biografia di Putin, e non è solo una suggestione. «Partecipai direttamente alla ripulitura degli archivi del Kgb. Insieme al mio file, ne vennero rimossi centinaia. Anche quello di Vladimir Vladimirovich Putin. Li stipammo in un edificio allora segretissimo. In quel periodo mi chiedevo spesso che razza di lavoro per la Patria sarei stato chiamato a fare. Lo capii dopo il golpe fallito del ‘91, quando mi ritrovai per conto del Kgb direttore finanziario di un’importante jointventure. La mia vita si divise tra Mosca, San Pietroburgo, Stoccolma, Vienna, Ginevra. Soldi, soldi e ancora soldi. Non mi occupavo d’altro che di farli correre per il mondo, da un paradiso offshore a un altro. Noi, i Patrioti del Kgb, stavamo spostando milioni e milioni di dollari nei caveau delle banche. E, lungo quei canali, si muoveva anche il denaro della criminalità organizzata al punto che neanche io avrei saputo dire quali soldi erano del Kgb e quali delle mafij, le mafie. I miei capi non rispondevano alle mie timide domande, mi dicevano soltanto: fai muovere questi dannati soldi. Io li facevo muovere» .
Non è una storia nuova.
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Nel 1992, il Parlamento russo insediò una commissione di inchiesta per recuperare, se non tutta, una parte almeno della ricchezza che i “giovani patrioti” del Kgb come Nikolaj avevano pompato da Mosca e da San Pietroburgo all’estero. 60 tonnellate d’oro, 8 di platino, 150 di argento. Tra i 15 e i 50 miliardi di dollari, tra i 30 mila e i 100 mila miliardi di lire. Secondo la Commissione PonomarevSukorov: “Nel 1990 il Politburo del comitato centrale del Pcus prese atto dell’irreversibile perdita di autorevolezza ideologica e politica e dispose una serie di ordini segreti per coinvolgere le strutture dell’intelligence in attività finanziarie e commerciali che si risolsero in un saccheggio di ricchezze del Paese e nel loro trasferimento all’estero attraverso banche e joint ventures”.
Il Kgb fondò 100 banche nella sola Mosca e 600 nell’intera Federazione. Altrettante società finanziarie videro luce in Occidente. Le società occidentali interessate a fare affari in Russia erano obbligate a stringere jointventure con società sovietiche. E secondo alcuni reports del 1992, circa l’80 per cento delle jointventures della Federazione russa vedevano coinvolti ufficiali del Kgb. Non esisteva in quello scampolo di Urss, né sarebbe esistita nella nuova Russia, alcuna azienda a partnership occidentale di media o importante grandezza che non avesse un vice direttore o responsabile locale scelto o, per meglio dire “imposto” dal Kgb.