I caduti di Kabul e il cuoco di Cesare

Se lo domandava molto tempo fa il vecchio Bertolt Brecht: Giulio Cesare ha conquistato tutta la Gallia, ma non aveva nemmeno un cuoco? Gli fece eco, anni più tardi, il nostro Lucio Dalla in Itaca: «Capitano, che hai negli occhi/ il tuo splendido destino / pensi mai al marinaio / a cui mancan pane e vino? / Capitano, che hai trovato / principesse in ogni porto, / pensi mai al rematore / che sua moglie crede morto?». È una bella canzone, questa di Dalla: un po’ vecchia ormai, ma adatta a chi corre l’avventura in paesi lontani. Chissà se la conoscono, i nostri parà in Afghanistan. Fra l’altro, farebbe molto al caso loro, e al nostro.
Lo dico perché anch’io ho seguito, il 20 settembre, il rientro dei nostri ragazzi caduti. Sono un vecchio ex ufficiale d’aeronautica, i parà li conosco e li amo. Quelli, poi, avrebbero potuto per età essere miei figli. E avrei potuto essere nonno di Simone Valente, il bambino di due anni figlio del sergente maggiore Roberto: uno dei sei tornati a casa forse proprio secondo la descrizione di un altro nostro poeta e musicista, Fabrizio de André, le salme avvolte nelle bandiere «legate strette perché sembrassero intere».
Si sono chiamati «vittime», «eroi», «martiri». Non ne offendiamo la memoria con sciocchezze retoriche. Un soldato che cade durante un combattimento o un incidente di guerra è, appunto, un caduto. Non è una «vittima», perché tale appellativo si usa per gli inermi, per gli indifesi. Non è né un «martire», né un «eroe» perché tali epiteti spettano a chi in qualche modo ha compiuto qualcosa di straordinario e di esemplare. Né essi, strettamente parlando, sono caduti nell’adempimento del loro dovere: erano in Afghanistan per libera e volontaria scelta, non per obbligo. Sono caduti facendo il loro lavoro: in una circostanza tragica, ma che faceva parte purtroppo della loro condizione professionale. E ciascuno di loro lo sapeva benissimo. Poiché erano membri delle nostre forze armate, li onoriamo. Ma non infanghiamone la memoria contaminandola con la strumentalizzazione politica. Per un soldato la morte – lo diceva benissimo José Antonio Primo de Rivera, che lo provò con i fatti – «è un atto di servizio».
Ecco perché è grottesco che il ministro La Russa dichiari che quei parà sono morti «per la Patria». In Italia, se si vuol restare fedeli alla Costituzione, le armi s’imbracciano soltanto per difendersi; e il teorema della «difesa preventiva», secondo il quale l’occupazione dell’Afghanistan servirebbe a tutelare le nostre città e le nostre case dalla possibilità di attacchi terroristici, prima di essere infame, è ridicolo. La guerra al terrorismo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione e soprattutto con l’eliminazione delle ragioni sociali e politiche suscettibili di far guadagnare simpatie ai terroristi: non con i bombardamenti aerei e con i carri armati.
L’occupazione dell’Afghanistan ha avuto, tra le sue conseguenze, quella di diffondere a macchia d’olio il terrorismo e la simpatia per esso. Lorsignori hanno mandato i nostri soldati a morire per far piacere alla superpotenza statunitense e nel nome di un demenziale teorema geopolitico; ed essi hanno accettato il rischio magari anche spinti da altre considerazioni, ma anzitutto perché ciò faceva parte della loro condizione professionale. Il che non vuol affatto dire che i nostri ragazzi siano morti invano: al contrario. Quando a troppi italiani sarà caduto dagli occhi il velo della propaganda, apparirà chiaro che quelle vite sacrificate sono state altrettanti passi sulla via della pace e della giustizia, la quale passa per forza attraverso il riconoscimento che l’avventura in Afghanistan è assurda.
E non è meno grottesco Umberto Bossi quando, ammettendo di aver votato per mandare in Afghanistan i nostri soldati, precisa che non aveva alcuna intenzione di «mandarli a morire». Non so se Ella abbia fatto il soldato e ignoro quanto Ella sappia di storia, Signor Ministro: ma lasci che Le confidi in un orecchio un piccolo segreto. In guerra ci si muore.
D’altronde, la gaffe di Bossi è comprensibile. Ma proprio questo la rende più repellente. Le guerre in Iraq e in Afghanistan, come troppi conflitti che oggi insanguinano il mondo dalla Palestina all’Africa, vedono confrontarsi forze armate «regolari» e super armate contro avversari in condizione militarmente inferiore, a parte le vittime civili e i caduti sotto «fuoco amico» e a causa di «danni collaterali», che in genere si degnano appena di una distratta menzione. È sottinteso che molti pensano che, in una guerra del genere, i «nostri» data la loro superiorità militare siano invulnerabili e che il morire tocchi solo agli altri. E che ciò sia bene, perché i nostri stanno dalla parte giusta.
Ora, dei nostri sei parà, anche se a pochi giorni dal loro sacrificio essi stanno già purtroppo entrando nell’oblio (sono queste le regole della società spettacolo), finché facevano notizia ci hanno detto tutto: ne abbiamo visti i volti, ne abbiamo letti i profili biografici, ne conosciamo i nomi e quelli delle loro mogli, delle loro fidanzate, dei loro figli. Qualcuno di loro avrebbe forse preferito un po’ più di riserbo, di silenzio: di pudicizia. Ma in fondo è forse giusto che sia stato così: erano soldati del nostro esercito, gente nostra.
Ma non sarebbe né giusto né cristiano continuare a mantenere nell’ombra e nel silenzio quelli «dell’altra parte» (se è un’altra parte: e non lo è, perché con loro non siamo in guerra, e comunque perché condividiamo con loro la condizione umana, la vera patria comune): come le decine di poveri afghani, fra cui donne vecchi e bambini, trucidati non troppi giorni fa da un barbaro disumano e inutile attacco aereo mentre cercavano di alleviare la loro miseria drenando un po’ di benzina da un camion sventrato.
Era «complicità col terrorismo», quel povero gesto? Era un «atto di guerra», d’una guerra non dichiarata, quella strage barbarica, che teneva dietro a un numero ormai spaventosamente alto di analoghe stragi tutte impunite? È degno della «nostra civiltà occidentale» continuar a trattare come dei semplici numeri tutti i poveri morti che giornalmente affollano le cronache distratte di quelle guerre lontane o tacerli del tutto? No. Umanità e giustizia vogliono che anch’essi facciano al contrario notizia; che cessino di essere aridi e anonimi numeri su un bollettino o su una statistica.
Mi chiedo: esiste chi possa raccogliere queste righe e farle proprie? Che abbia il coraggio di dedicare alle vittime afgane innocenti ogni giorno sei brevi necrologie, tante quante erano i nostri parà caduti?
Sarebbe necessario e doveroso specchiarsi in quei volti, imparar a fare i conti con chi è morto anche per colpa del nostro silenzio e della nostra acquiescenza; con quelli che non hanno nessuno che li difenda o che almeno ne rivendichi la memoria e il rispetto. Dovremmo meditare sulle loro vite spezzate, noialtri che non siamo riusciti a opporci abbastanza efficacemente ai mascalzoni secondo i quali invadere un paese altrui e bombardare degli inermi da duemila metri è un normalissimo – e perfino «eroico» – atto di guerra, mentre difendere la propria terra con le armi di cui dispone un popolo che non ha né aerei, né elicotteri, né missili aria terra, né mezzi corazzati, è un atto «infame» e «vile».