Amnesty-Usa denuncia la «scomparsa», dopo l’arresto da parte delle truppe americane, di un’imprenditrice irachena che aveva denunciato le torture
E’vero che nelle carceri americane in Iraq vi sono numerose prigioniere, arrestate spesso solamente perché parenti di ex esponenti del Baath (vi sarebbero anche la moglie e la figlia del vicepresidente Izzat Ibrahim) o di dirigenti della resistenza, e che queste vengono maltrattate, torturate e subiscono violenze sessuali al pari degli uomini? Questi angosciosi interrogativi sono stati riproposti negli ultimi giorni da un appello lanciato da Amnesty Intenational -sezione Usa intitolato: «Preoccupazione per la sorte/ per la possibile “scomparsa”/ per possibili torture o maltrattamenti: Huda Hafez Ahmad al-Azawi, donna di affari (irachena ndr.). L’appello urgente si riferisce ad un’imprenditrice di Baghdad sequestrata dai soldati Usa e dalle milizie del nuovo governo iracheno lo scorso 17 febbraio. Da allora nessuno ha più saputo nulla di lei. L’arresto sarebbe avvenuto alle 4 del mattino nella sua casa di Hay al-Jamiaa Baghdad. Secondo l’organismo internazionale per la difesa dei diritti umani la donna, per di più convalescente da un’operazione subita una settimana prima, sarebbe stata ammanettata, bendata e picchiata nel corso dell’arresto insieme alle due figlie Nura di 15 anni e Sarah di 20. I soldati si sarebbero impadroniti anche di tutti i gioielli di famiglia e di tutto il contante pari a 2.500 dollari. I soldati, prima di portarla in una località sconosciuta l’avrebbero genericamente accusata di «sostenere la resistenza». Ma la colpa della donna d’affari irachena potrebbe essere stata piuttosto quella di aver denunciato alla stampa internazionale, non soltanto la pretestuosità di un suo predecente arresto nel dicembre del 2003 – in seguito alla denuncia di un informatore al quale si era rifiutata di pagare 10.000 dollari – ma anche l’uccisione, sotto tortura del fratello Ayad arrestato con lei e sua sorella Nahla, i maltrattamenti subiti da lei e dalle altre detenute – appuntati clandestinamente sui margini di un piccolo corano – nel corso della sua lunga detenzione nell’universo concentrazionario dell’Iraq occupato, terminata solamente nel luglio del 2004.
Altri due fratelli di Huda, Ali Hafez Ahmad e Mo’ataz Hafez Ahmad sarebbero ancora detenuti dalle forze di occupazione ma sino ad oggi Amnesty international non ha ricevuto alcuna informazione relativa alla data del loro arresto e soprattutto sul loro luogo di detenzione. Appena rilasciata nell’estate del 2004 la tentanovenne e coraggiosa donna di affari, nonostante fosse stata abbandonata dal ricchissimo marito «imbarazzato» dalle notizie sui maltrattamenti subiti da sua moglie, aveva raccontato a numerosi giornalisti degli abusi sessuali subiti da suo fratello Mo’ataz sotto i suoi occhi, nell’ex palazzo presidenziale di Saddam Hussein, dell’uccisione sotto tortura, lo stesso giorno, di un altro fratello, Ayad, delle privazioni del sonno, dei pestaggi, delle ore passate all’aperto nel gelo dell’inverno, delle docce gelate, delle celle senza tetto, del regime di isolamento, anche per 23 ore al giorno. Dopo aver subito la rottura di una spalla Huda e i suoi parenti sopravvissuti, furono trasferiti dal centro di detenzione segreto nel palazzo di Saddam all’accademia di polizia a Baghdad e quindi, il 4 gennaio in quello «ufficiale» di abu Ghraib. Qui la donna di affari irachena avrebbe trascorso 156 giorni in isolamento nell’ala «dura» del carcere, dove si trovavano altre cinque donne, al piano superiore dello stesso braccio dove vennero scattate le fotografie delle torture. Huda al Azawi non ha mai denunciato di aver subito violenze sessuali ma di queste hanno parlato il rapporto del generale Usa Taguba secondo il quale almeno un soldato della polizia militare avrebbe violentato una detenuta, una lettera fatta uscire dal carcere clandestinamente da una prigioniera di nome Noor e alcuni testimoni citati dal quotidiano inglese «The Guardian» secondo i quali le guardie della prigione avrebbero ripetutamente violentato una ragazzina di 14 anni lo scorso anno e avrebbero costretto le donne a camminare svestite per i corridoi del carcere. Ad eccezione di Huda e di poche altre donne, il terrore di quel che potrebbe accadere loro ad opera della famiglia e la vergogna per le violenze subite, ha impedito alla maggior parte delle donne che hanno subito violenze di denunciarle pubblicamente. Molti sarebbero stati i suicidi tra le donne rimaste incinta in seguito alle violenze e non pochi i casi nei quali invece le malcapitate sono state uccise dai familiari. Le più fortunate sono state semplicemente divorziate. Non mancano anche alcuni, rari, casi di un trattamento più umano di queste donne da parte dei loro parenti come quello di un uomo che si è rifiutato di uccidere la sorella in cinta di quattro mesi in seguito alle violenze subite e del loro cheik che ha vietato qualsiasi atto ostile nei confronti della donna definita «una martire dell’occupazione».