Hotel Corno d’Africa, grande base americana

Tigist ha ventidue anni e lavora come cameriera al Dil Hotel di Dire Dawa, la seconda città per importanza e numero di abitanti d’Etiopia. «Da quando ho trovato questo lavoro, finalmente posso dare una mano ai miei genitori. Siamo in 10 in famiglia, e sino a un anno fa sopravvivevamo con lo stipendio di mio padre, autista di camion», racconta, mentre serve del the a due avventori dell’albergo. «Ora con i miei 150 birr (meno di 15euro, ndr) al mese, viviamo un po’ meglio».
Dire Dawa è una città dove la vita scorre lenta al ritmo del Khat, la foglia stimolante che molti amano masticare. Soprattutto, un centro di passaggio sulla rotta dei camion e del treno che da Addis Abeba porta verso Gibuti, la piccola repubblica somala ex-colonia francese, oggi principale porto commerciale di cui si serve l’Etiopia. «Questo è un albergo molto frequentato da businessmen etiopi e turisti di passaggio in città, diretti soprattutto ad Harar, la quarta città santa dell’islam dove ha vissuto a lungo il poeta francese Rimbaud», racconta un facoltoso imprenditore di Addis Abeba, ospite dell’albergo. «Io vengo qui almeno due volte a settimana. Ultimamente, almeno metà dell’hotel è occupato da militari americani. Arrivano su vetture civili, targate Gibuti o Dubai oppure prese a noleggio qui in Etiopia. Scaricano attrezzatura e si installano per giorni, continuando a fare avanti e indietro. Io vengo sempre qui, e non mi posso esporre. In Etiopia ci sono molti argomenti di cui è meglio non parlare. Uno di questi sono i soldati americani e le loro attività», continua l’uomo. Per questo il suo nome non verrà citato.
L’uomo parla e racconta usando un inglese perfetto. Ogni tanto però si interrompe e continua piano in amarico. Infatti, anche oggi, al Dil hotel, come in tutta Dire Dawa, si aggirano soldati americani. Primo fanteria, Air force, Us Navy. Tutti in divisa, con nomi e gradi ben in vista. Alcuni di loro sono armati, M-14 a tracolla, caricatori disinseriti ma a portata di mano. Stanno scaricando materiale appena arrivato a bordo di un van e di tre fuoristrada Toyota. Mezzi civili, come sempre. Computer, tecnologia di comunicazione satellitare e attrezzatura per costruire un campo (tende e brande) vengono lasciati sotto la custodia di 4 palestratissimi soldati del Primo reggimento fanteria. Intanto, altri uomini in divisa (ufficiali di aviazione e di marina), accompagnano tre uomini e una donna in un giro di perlustrazione dell’hotel. Discutono fitto, a bassa voce. Controllano le stanze, le entrate dell’albergo, le vie di fuga, i tetti. Poi alcuni di loro risalgono sui fuoristrada, e se ne vanno, scortati da ragazzi etiopi che parlano con un pesante accento americano. «Uno di loro ha chiesto informazioni sui clienti dell’hotel», racconterà poi un dipendente, la voce preoccupata.
Che il Corno d’Africa sia diventato per gli Usa uno dei luoghi strategici nella cosiddetta «guerra al terrorismo» non è cosa nuova. Come non è nuovo il fatto che il piccolo Stato di Gibuti sia il centro del comando della Combined Joint Task Force (Cjtf) americana per il Corno d’Africa. Una missione militare di pronto intervento e di intelligence «il cui obiettivo è individuare, interrompere, e in ultima analisi sconfiggere i gruppi terroristici transnazionali che operano nella regione – impedendo paradisi sicuri, supporti esterni, e assistenza materiale per le attività terroristiche», come spiega il sito Globalsecurity.org. Inoltre, il Cjtf «ha lo scopo di combattere il riemergere del terrorismo internazionale nell’area attraverso operazioni militari/civili e supportando operazioni di organizzazioni non-governative, al fine di rinforzare la stabilità a lungo termine della regione». L’area di responsabilità della missione, stando al sito ufficiale, comprende lo spazio aereo e terrestre di Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Gibuti e Yemen.
La base principale di questa missione è – sin dai suoi esordi nel 2002 – Camp Lemonier, ex-caserma della legione straniera francese poco fuori da Djibouti-ville, capitale e unica città di un certo rilievo della piccola repubblica. Qui sono basati soldati di fanteria, marines, ma anche forze della marina, dell’aviazione e di intelligence. Da qui, ieri, è partito l’aereo AC-130 che ha bombardato la zona di Ras Kamboni, nel sud della Somalia, dove secondo i servizi statunitensi si trovavano miliziani delle Corti e sospetti membri di al-Qaeda.
Secondo il Comando, la missione nell’area supporta l’operazione Enduring freedom e unisce attività civili di supporto alla popolazione (operate da soldati armati e in divisa) a operazioni di addestramento militare a eserciti di paesi amici, oltre a vere e proprie operazioni antiterrorismo. Il tutto, dice l’ufficio stampa del Cjft, «ha il fine di garantire alle Nazioni ospitanti un ambiente stabile e sicuro, dove la gente abbia la libertà di scegliere. Dove l’educazione e la prosperità siano alla portata di ognuno e dove i terroristi, che con le loro idee estremiste cercano di ridurre in schiavitù le Nazioni, non possano calpestare il diritto di autodeterminazione».
E l’Etiopia? Le attività militari Usa in Etiopia negli ultimi 4 anni sono andate aumentando. Fuori Dire Dawa, dagli inizi del 2004, unità americane hanno iniziato a cooperare e ad addestrare unità speciali etiopi in una piccola base militare chiamata «Camp United». Ma da lì partono anche azioni legate alla «guerra al terrorismo globale», coordinate dalla base di Gibuti. Lo stesso succedeva mesi fa a Gode, nella regione somala d’Etiopia, non lontano dal confine con la Somalia. Poi Addis Abeba ha iniziato i preparativi per l’intervento in Somalia, e la base Usa è sparita. Dove sia finita, non si sa. Di certo, le operazioni antiterrorismo americane che partono dall’Etiopia continuano. E la gente, che già non capisce il senso dell’intervento militare in Somalia, è perplessa. Nel centro di Dire Dawa, nel quartiere di Kezira, ancora soldati in divisa e armi in vista. «Non capiamo cosa stia succedendo», spiega Blein seduta ai tavoli del Mitto cafè, attorniata da una decina di soldati Us che bevono qualcosa. «L’unica cosa che sappiamo, è che non bisogna fare domande».