La morte di Enrico Formenti, il terminalista del porto di Genova deceduto ieri sotto una balla di cellulosa al terminal frutta, è l’ultimo di una lunga serie di infortuni che hanno colpito negli ultimi anni lo scalo ligure. I dati sono tragici. In nove anni si sono verificati ben 25 incidenti mortali solo fra i portuali: questo numero cresce in modo impressionante (24 decessi in 5 anni) se si aggiungono le altre morti avvenute sempre “in porto” ma in altre categorie: operai, marittimi di bordo, camionisti.
Un altro dato, riferito alla sola Compagnia Unica, la categoria numericamente più importante del porto di Genova con circa 1000 persone impiegate, non lascia dubbi sulla pericolosità del lavoro nei terminal oggi: una ricerca della Bocconi realizzata alla fine degli anni ’90 parlava di circa 700 infortuni l’anno, di varia gravità, su mille lavoratori.
Quello della sicurezza, insieme al salario, rappresenta uno dei parametri più sensibili per la valutazione del reale stato della portualità italiana. Il numero di incidenti nel resto dei porti europei storici è di gran lunga inferiore a quello italiano, e un portuale greco, spagnolo o francese ha un trattamento economico tre volte maggiore di un suo collega italiano.
Il sistema portuale nel nostro paese è in crisi da almeno cinque anni. Mentre gli altri porti del Mediterraneo crescono in proporzione all’attuale incremento dei traffici di merci (si prevede il raddoppio entro il 2025), i porti italiani sono fermi, o in deficit, rispetto alle movimentazioni della fine degli anni ’90. La crisi economica e strutturale del comparto logistico portuale si trasferisce nel progressivo degrado anche della qualità del lavoro, della sicurezza e dei diritti. «Se si dovessero applicare alla lettera le norme di sicurezza previste dalle normative internazionali – racconta Massimo Meucci, portuale e segretario di uno dei circoli di lavoratori del Prc a Genova – il porto, qualsiasi porto, si fermerebbe». Mentre molto spesso il lavoro non si ferma nemmeno davanti a incidenti mortali, come racconta Luca, un altro portuale: «Ho visto morire un ragazzo schiacciato fra due “ralle”. Lo sai cosa hanno fatto? Ai tempi di mio padre avrebbero bloccato il porto, e invece hanno coperto la pozza di sangue con la segatura e hanno continuato a lavorare».
La sicurezza in porto è legata a numerosi fattori, dalla manutenzione allo stato delle navi da caricare e scaricare, dalle condizioni generali di lavoro all’uso di straordinari e “doppi turni”. Il lavoro è diviso su quattro turni a coprire l’intero arco della giornata. Spesso, quando ci sono flussi di lavoro intensi, la “chiamata” è ravvicinata. Un turno, poi sei ore di riposo, un altro turno, altre sei ore e così via. Quando la turnazione è così intensa è inevitabile che la stanchezza e la concentrazione cali pericolosamente. E in questo caso è facile provocare un incidente o esserne vittima.
«Quello che manca sono le regole, delle regole vere – dichiara Bruno Rossi, sindacalista e ex dirigente della Compagnia Unica – Nei terminal, oggi, di fatto chi decide anche della sicurezza è soltanto l’impresa, che risponde esclusivamente alle logiche del profitto».
Se oggi, dopo la morte di Formenti, il porto è bloccato lo si deve anche all’esasperazione e al disagio accumulato da molti lavoratori: già nei due giorni precedenti la tragedia si erano verificati altri quattro infortuni più o meno gravi. E non solo. Alcuni lavoratori si erano esposti personalmente proprio nelle scorse settimane per denunciare la situazione di degrado ricevendo intimidazioni e pressioni per ritirare le proprie dichiarazioni: si era arrivati addirittura a scritte intimidatorie in porto e in alcuni casi si è giunti a passi formali da parte delle aziende con minacce di provvedimenti disciplinari a chi aveva avuto il coraggio di parlare.