Fa bene il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, a preoccuparsi. «Siamo tutti hibakusha», ha detto, utilizzando il termine giapponese che indica i «contaminati». «Il pericolo di una corsa alla proliferazione nucleare è concreto. Bisogna fermarla». E’ quanto ha chiesto ieri a Hiroshima, in occasione del 60mo anniversario della bomba, il sindaco Tadatoshi Akiba, chiedendo che le Nazioni unite approvino entro il 2020, a maggioranza e senza diritto di veto, il disarmo nucleare totale. Ad ascoltarlo c’erano decine di migliaia di persone riunite nel Peace Memorial Park, vicino al «ground zero» dove il 6 agosto `45 scoppiò la bomba. «Il problema non è la proliferazione, ipotetica o reale che sia. Il problema sono gli arsenali nucleari esistenti, l’arroganza e irresponsabilità delle potenze che non intendono smantellarli, come era previsto nel trattato di non proliferazione», ha spiegato il sindaco Akiba, che non è un comunista e nemmeno un pacifista fondamentalista: appoggia il partito di governo, quello che vuole modificare la costituzione e legittimare le forze armate giapponesi. «Se non ci fosse il club nucleare, cesserebbe la lista d’attesa per entrare a farvi parte». Parole sagge. Ma destinate a cadere nel vuoto.
Ci si preoccupa, a ragione, della minaccia nordcoreana e iraniana, ma pochi hanno la serenità mentale e la forza morale di ricordare che secondo gli attuali standard di giudizio, il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki sono stati atti di terrorismo. Se è terrorismo buttare una bomba in un mercato, farsi esplodere in una piazza, uccidendo decine di civili, che dire di un bombardamento che spazza via un’intera città, dove donne, vecchi e bambini vivono nella disperata attesa di rivedere i loro uomini, spediti al fronte dalla megalomania di un imperatore e dei suoi generali? E non ci vengano a dire, come si è detto e scritto per 60 anni – si pensi alla Storia del Giappone dell’ex ambasciatore Edwin Reischauer, tutt’ora utilizzato come testo nelle università – che in guerra tutto è lecito, che la bomba atomica ha salvato vite umane (americane, soprattutto) ed il mondo da un’altra potenza comunista.
L’apertura degli archivi ha già ampliamente dimostrato che quella decisione, lungi dall’essere condivisa, fu presa dal presidente Truman, appoggiato da alcuni, ma non tutti, i generali. Per un McArthur invasato, che pochi anni dopo avrebbe voluto usarla anche contro la Corea del Nord e la Cina, c’era anche il suo capo di stato maggiore, il generale William Leahy, che fece registrare il suo dissenso: «Sarebbe un ritorno alla barbarie medievale».
Pare che dieci anni fa, in occasione del 50mo anniversario della bomba, l’amministrazione Clinton stesse prendendo in seria considerazione l’ipotesi di scusarsi ufficialmente con il Giappone. Non se ne fece nulla, ma almeno venne inviata una delegazione ufficiale. Stavolta la consegna è stata rigida: no comment. Niente celebrazioni per il «Victory Day», ma nemmeno falsi pentimenti.
All’arrogante silenzio di Bush corrisponde l’ipocrisia di Junichiro Koizumi. Distratto dalle beghe interne del suo partito, che rischiano di provocare le elezioni anticipate prima dell’approvazione finale del suo cavallo di battaglia, la privatizzazione delle poste, il premier ha rivendicato il ruolo pacifista del Giappone e i suoi tre irrinunciabili principi: non fabbricazione, non possesso, non introduzione di ordigni nucleari sul suo territorio. Ma si è dimenticato di dire che questa «lacuna» viene colmata dagli Stati uniti, e che il suo partito, ahimè in completo accordo con la maggior parte dell’opposizione (comunisti esclusi), sta per modificare la costituzione. Scritta, è bene ricordarlo, dagli Usa (e contro cui, all’epoca, votò solo il Pc).
Nel frattempo, in un anonimo ristorante di Hiroshima, Yuriko Hatanaka ha festeggiato i suoi 59 anni. Al momento dell’esplosione era nel ventre della madre, morta dopo il parto. E’ una delle 6 mila microcefale iscritte alla semiclandestina (in Giappone la diversità, di qualsiasi origine, è ancora causa di crudeli discriminazioni) «società del fungo». Ogni anno si riuniscono, senza clamore, per contarsi e congratularsi di essere ancora vivi. Sessant’anni dopo.