Hezbollah avverte: non ce ne andiamo

Mentre l’Europa canta vittoria per una battaglia che non ha ancora iniziato, Hezbollah annuncia che la resistenza non è finita. «Le ragioni per terminare la resistenza ancora non ci sono» ha dichiarato al quotidiano libanese Al-Anar il vice-comandante del movimento sciita, Naim Kassem.«Quando ci metteremo d’accordo su un piano di difesa per confrontare Israele, definendo il ruolo della resistenza, dell’esercito e del popolo libanese, allora si vedrà quali saranno le regole e i ruoli», ha aggiunto Kassem. Il quale ha anche spiegato la dinamica di quella che per Hezbollah era un’offensiva militare a sorpresa, chiarendo che la milizia è venuta a sapere solo due giorni dopo l’inizio della guerra l’esistenza di un piano di attacco israeliano, sostenuto dagli Stati uniti e previsto invece per settembre-ottobre. «Israele non era pronto, infatti voleva preparasi per un altro mese o due, ma le pressioni americane da una parte e il desiderio di ottenere il successo dall’altro sono stati i fattori che hanno determinato la loro fretta», ha commentato Kassem.
L’intervento del leader della resistenza sciita giunge in un momento particolarmente delicato nello scenario politico libanese. L’Unione europea ha sì annunciato la decisione di non interferire nella questione del disarmo di Hezbollah, ma a condizione che sia il governo libanese ad occuparsene. E i caschi blu saranno in ogni caso pronti a dare una mano nel caso Beirut lo richiedesse. Al momento la questione sembra perciò interamente aperta e dipendente dalle dinamiche politiche libanesi. Se per un verso anche le forze politiche tradizionalmente ostili a Hezbollah non possono che riconoscere la vittoria della resistenza e applaudire lo schiaffo morale subito da Israele, per altro si moltiplicano le richieste al Partito di dio di risolvere le «ambiguità» del suo posizionamento interno e delle proprie alleanze all’estero.
Ieri Samir Geagea, capo del partito di destra antisiriano «Forze libanesi», che ha un seggio nel governo Siniora, chiedeva a Hezbollah «chiarezza» e «coraggio» nel definire la propria posizione sulla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dicendo che non è più tempo di «tergiversare» e ricordando la fragilità della tregua: «Nessuno è incoraggiato a ricostruire le proprie case quando tutti temono che tra un mese o due vi possano essere nuove distruzioni».
Su posizioni molto diverse da quelle forze politiche che ritengono Hezbollah colpevole per l’inizio della guerra è invece il presidente libanese filo-siriano Émile Lahoud il quale, in un colloquio con l’inviato indiano per l’Asia e l’Occidente C. R. Gharekhan (l’India manderà truppe nella missione Unifil 2) ha ricordato le «molte riserve» libanesi sul contenuto della risoluzione 1701. Tra le più importanti vi sarebbe il fatto che la risoluzione attribuisca al Partito di dio la responsabilità di aver causato la guerra, mentre i massacri di civili compiuti in varie zone del Libano passano del tutto inosservati. Il presidente libanese ha poi aggiunto che avrebbe intenzione di chiedere a Israele presso le istituzioni regionali i danni e gli interessi per le distruzioni delle infrastrutture e le uccisioni di civili. Lahoud ha anche ricordato la continua violazione della risoluzione 1701 da parte di Israele, che persiste nel mantenere il blocco navale e aereo sul Libano, ignorando i moniti della comunità internazionale, problema su cui si era soffermato in giornata anche il ministro della giustizia libanese Charles Rizk.
La questione del blocco israeliano assumerà un peso importante nei colloqui tra rappresentanti del governo libanese e il segretario generale dell’Onu Kofi Annan, atteso ieri a Beirut. Lo ha dichiarato Mohammed Chatah, braccio destro del premier libanese Siniora, il quale ha anticipato che parte dell’agenda sarà anche dedicata a discussioni sulla presenza israeliana nelle fattorie di Shebaa e sulla questione dello scambio dei prigionieri. Fonti diplomatiche hanno tuttavia rivelato che Kofi Annan avrebbe intenzione di chiedere al governo libanese di non usare la questione delle fattorie come arma di scambio per il rilascio dei prigionieri. Il che, se confermato, spiegherebbe l’entusiasmo di Israele nell’accogliere le istanze dell’ultima risoluzione delle Nazioni unite sull’ultima crisi medio-orientale.