Poco più di un mese fa l’operatore di Emergency Rahmatullah Hanefi era l’uomo cui la Farnesina sentiva di poter affidare per intero la liberazione dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo anche a costo di mettere in un angolo la diplomazia e i servizi segreti. Ora il ministro degli Esteri pare aver cambiato idea: «A Rahmatullah Hanefi saranno garantiti tutti i diritti, incluso quello di essere difeso da un avvocato», dice a fine giornata circondato dai giornalisti che gli chiedono di commentare la notizia, pubblicata dal Corriere della sera, secondo cui l’operatore arrestato dai servizi afghani sarebbe accusato di «concorso in omicidio» per aver consegnato ai talebani l’interprete di Mastrogiacomo Adjmal Nashkbandi e lo implorano di chiosare il fatto che per questa accusa l’uomo rischia di essere condannato a morte con un processo in cui non avrà neppure un avvocato perché avrebbe messo in pericolo la sicurezza dell’Afghanistan. L’ultimo elemento, per di più, è un brutto atto di accusa al sistema giudiziario afghano ricostruito proprio dall’Italia con soldi ed energie investite da tempo. Ma D’Alema non è tipo da perdere le staffe: «La pena di morte contro Hanefi renderebbe sicuramente assai difficile la cooperazione giudiziaria tra noi e l’Afghanistan», risponde serafico.
Smuove poco, come succede ormai da settimane, anche il comunicato stampa dell’organizzazione di Gino Strada che urla il proprio disappunto definendo «inconcepibile» che «il governo italiano prosegua nel suo sostanziale disinteresse, in considerazione anche del fatto che tutto questo sia relativo a una persona che è accusata per ciò che ha compiuto in attuazione di richieste della presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri». Difficile, soprattutto, capire come siano formulate le accuse mosse contro Hanefi che la scorsa settimana erano state accennate dall’ambasciatore afghano in Italia Musa Maroofi dopo una manifestazione a favore dell’operatore umanitario sfilata davanti alle porte della sua sede diplomatica.
Il pericolo non è immediato. Il presidente afghano Hamid Karzai non ha mai firmato il decreto esecutivo di nessuna delle condanne a morte pronunciate dalla giustizia del suo paese ed è difficile pensare che lo farà proprio in questo caso. Per di più sia la nuova costituzione afghana che il codice penale riformato con la collaborazione dell’Italia prevedono il diritto ad essere assistiti da un avvocato, un giudice terzo ed un sistema processuale basato sulla «cross esamination» delle prove raccolte dalla polizia tra accusa e difesa. A scrivere il codice è stato il magistrato italiano Giuseppe Di Gennaro (lo stesso rapito e rilasciato in Italia dai Nap nel 1974) che però abbandonò l’incarico nel 2004 in forte polemica col governo afghano. «Bisognerebbe capire che tipo di accuse sono state rivolte ad Hanefi e in base a quale legge – spiega Massimo Papa, docente di Diritto islamico all’università di Bologna ma ex membro delle missioni della Undp e della Commissione europea per la riforma della giustizia afghana – perché le leggi speciali, specie quelle collegate al terrorismo, danno la possibilità di procedere con urgenza eliminando le garanzie processuali. Ma arrivare ad una condanna a morte senza processo significherebbe violare anche la carta costituzionale afghana».
Tirando le somme probabilmente la situazione giudiziaria di Ramatullah Hanefi non si risolverà in tempi rapidi, mentre sembra assodato che il presidente Hamid Karzai si muove perché in qualche modo ritiene di poter tenere sotto pressione la diplomazia italiana e di essere in grado di forzare sul braccio di ferro con una associazione umanitaria che ormai pure il governo italiano non difende pubblicamente. Se sul come abbia funzionato la dinamica del rilascio di Mastrogiacomo e sul perché Adjmal sia stato lasciato solo al momento della liberazione non tutti i dettagli sono chiari, gli elementi sollevati contro l’operatore di Emergency sono considerati pretestuosi dall’intero arco costituzionale italiano, fatta eccezione per Maurizio Gasparri di Alleanza nazionale che ha chiesto a Gino Strada di «spiegare le accuse contro Hanefi». L’ex senatore di Rifondazione comunista Gigi Malabarba è convinto che con l’arresto e le accuse contro Hanefi più che il suo comportamento del 19 marzo scorso c’entri il processo Calipari e, forse, quello per il rapimento dell’imam Abu Omar: «Hanefi non sarà liberato anche perché la magistratura italiana non rinuncia giustamente all’accusa di omicidio politico volontario dell’agente del Sismi, per non parlare delle accuse agli agenti Cia per Abu Omar». Anche la sinistra radicale chiede chiarezza. Nel novello Partito democratico, invece, non c’è nessuno che prenda la parola.