«Hamas? Una creatura europea. E Abu Mazen ha le mani legate»

«I love children»: è la prima frase che il capo delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (braccio armato di Fatah) del campo profughi di Jenin, Zakaria Zubeida, dice a un gruppo di Donne in nero italiane, ancora prima che loro chiedano qualcosa. Un incontro casuale, in cui ci s’avventura come percorrendo un labirinto. Cartelloni al neon con i visi degli shahid ammazzati mentre compivano qualche attentato o civili stecchiti in operazioni dell’esercito israeliano, poster su ogni muro del campo, 15 mila 956 abitanti in 37 ettari, fanno da refrain alle scritte spray in arabo come: «gli israeliani pensano che siamo di legno e di poterci prendere a calci, invece siamo bombe pronte ad esplodere in ogni momento».
Tre shahid stanno appesi anche nella stanza degli ospiti della casa dove Zakaria entra all’improvviso, con gli occhi spalancati e le orecchie che captano ogni rumore. Zubeida ha 30 anni e due figli. Prima di diventare maggiorenne ha passato quattro anni e mezzo in prigione per aver lanciato sassi e molotov contro i carri armati. Poi ha fatto il muratore in Israele, il sergente nell’Autorità palestinese, il camionista e il ladro di auto in Cisgiordania. Alla fine è entrato nella guerriglia e dal novembre del 2002 è il capo delle Brigate di Jenin. L’intelligence israeliana lo accusa di molti attentati tra il 2000 e il 2002 e di azioni contro le colonie e l’esercito israeliano nei Territori occupati in tempi più recenti. Quando entra, posa l’M-16 che porta a tracolla e guarda negli occhi le «international». Sul naso e sul labbro superiore ha una macchia nera-petrolio (nel 2003 gli è esplosa una bomba che stava maneggiando). Parla con voce piana e si rivolge apertamente, mentre più d’una si ritrova a pensare all’israeliana Tali Fahima chiusa e torturata in un carcere di massima sicurezza dall’agosto del 2004 con l’accusa di spionaggio per la sua amicizia con Zakaria (www.freetalifahima.org) e ad Arna Mer-Khamis (1930-1995), la comunista israeliana che dall’89 ha voluto un teatro nel mezzo del campo profughi, proprio nella casa della madre di Zakaria, uccisa in un raid di Tsahal nel marzo del 2002. Il figlio di Arna, Juliano, racconta come sono finiti gli attori-bambini nel film pluripremiato, «Arna’s Children: Zakaria fa il ricercato, suo fratello Daud è in prigione, cinque sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Un ottavo, Mohamud Kaneri, scolpisce i visi dei suoi amici sulle loro tombe. Il nono è disoccupato. Il teatro intanto è stato distrutto durante l’incursione dell’aprile 2002.
Lei ha dei figli?
Sì due. È anche per loro che combatto. Voglio proteggere i bambini.
Le armi sono la soluzione giusta?
No. In passato non avrei mai pensato di abbracciare un fucile. Ma quando hanno attaccato il nostro campo, ho capito che dovevo fare qualcosa per proteggere la mia gente. Qui dicono che siamo tutti terroristi. In realtà il mio gruppo è fatto di 15-20 combattenti, mentre nel campo vivono oltre 15 mila persone. La nostra forza è tutta qui, non abbiamo equipaggiamenti sofisticati. Sono anni che l’esercito israeliano continua a fare incursioni, ammazzare le nostre famiglie, arrestare decine di persone senza nessun motivo e distruggere le nostre case. Come dovremmo reagire?
E l’incontro con Arna?
L’esperienza del teatro è stata speciale, ma è stato tanto tempo fa. Fa parte del mio passato.
Che cosa pensa di Hamas?
Hamas è una creatura degli europei, l’hanno voluta loro, ci hanno portato alle elezioni sapendo già che avrebbe vinto e siamo finiti così. D’altra parte c’è Abu Mazen che non ha nessun potere. Viene convocato dagli israeliani quando vogliono loro. Non è in grado di decidere niente e lo dice uno che lo ha votato. Io sono convinto che se si andasse domani nuovamente alle elezioni Abu Mazen cadrebbe. Qui non c’è nessuno che ci protegge. L’Autorità palestinese poi è come se non esistesse, non può fare niente per difenderci.
Come fa a convivere con la paura di essere ucciso?
Ormai mi ci sono abituato. Passo i giorni e le notti nascosto. A volte scappiamo sui monti. Quando arrivano i soldati fuggiamo, ci muoviamo, non stiamo mai fermi in un posto fisso. Tempo fa eravamo come ora qui, a parlare con della gente, è arrivato l’Idf, ha iniziato a sparare, ma ce la siamo cavata.
Come funziona la rete della guerriglia con un’occupazione che impedisce ogni movimento?
C’è una rete consolidata tra i guerriglieri. Mi sento regolarmente con quelli di Gaza e con le altre città della Cisgiordania. Usiamo i cellulari. Siamo un’organizzazione leggera, non abbiamo grandi sistemi, armi speciali. Io combatto per la libertà del mio popolo, per la nostra indipendenza. Tutto qui. Attacchiamo solo in risposta alle loro operazioni. Non facciamo nessun attentato. Ma se vengono di notte e di giorno a prendere i nostri figli, dobbiamo pur difenderci.