Hamas-Fatah scontro in aula

La prima seduta “operativa” – dopo quella inaugurale del febbraio scorso – del Consiglio legislativo palestinese si è risolta in una clamorosa, anche se probabilmente temporanea, spaccatura tra la maggioranza vincitrice di Hamas e la minoranza sconfitta di Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, i cui deputati hanno abbandonato la seduta; e lo scontro si è verificato proprio sulla questione dei poteri del presidente dell’Anp, pur investendo ovviamente l’insieme dei problemi creati a livello sia interno che internazionale dalla vittoria del movimento islamico nelle elezioni del 25 gennaio.
I deputati della maggioranza hanno infatti votato una norma che di fatto revoca il potere di Abu Mazen di nominare i giudici della Corte costituzionale, incaricata di valutare la legittimità delle leggi che verranno adottate dal nuovo parlamento. Un braccio di ferro chiaramente più politico che costituzionale: Al Fatah ed Abu Mazen tendono, non da oggi, a porre dei limiti alle prerogative di un governo e di un parlamento controllati dagli islamici, e questi ovviamente ribattono con la stessa moneta. Il potere di nomina dei giudici costituzionali era stato affidato al capo dell’Anp dai deputati del parlamento uscente, dove Al Fatah aveva la maggioranza, e si tratterebbe di una norma formalmente inattaccabile; ma il fatto è che quella decisione è stata adottata, insieme ad altre, nell’ultima seduta del vecchio Consiglio legislativo, tenutasi il 13 febbraio e cioè due settimane dopo le elezioni e la conseguente vittoria di Hamas; per questo i vincitori considerano quel provvedimento un colpo di coda degli sconfitti, volto a ridimensionare la portata della loro vittoria, e per questo hanno ieri deciso di congelare tutto quel pacchetto di delibere per farle riesaminare dal parlamento in carica.

Anche questa votazione appare da un punto di vista di legittimità costituzionale ineccepibile, ma Al Fatah non ci sta proprio, perché lo scontro è di natura politica e investe l’immediato futuro dell’Anp. Per questo i deputati del partito del presidente hanno deciso di «ritirarsi dal parlamento, e non vi faranno ritorno – ha detto il capo-gruppo Azzam al Ahmed – fino a quando non saranno risolte queste divergenze. Abbiamo tentato con il dialogo e i contatti di risolvere per tempo il contenzioso – ha aggiunto l’esponente di Al Fatah – ma Hamas ha continuato a far valere la sua posizione di dominio». Un gioco di veti incrociati, insomma: Hamas accusa i deputati del Consiglio uscente di aver affidato ad Abu Mazen un potere di veto sull’attività parlamentare, Al Fatah ribatte accusando gli islamici di voler limitare i poteri del presidente dell’Anp, che è di fronte agli interlocutori internazionali il garante della continuità del processo di pace.

Che si sia arrivati subito a uno scontro così vivace era forse atteso ma non è comunque un buon inizio; tanto più che la posizione di Abu Mazen ne risulta in qualche misura indebolita, o comunque messa in discussione, proprio alla vigilia di un suo incontro con i vertici dell’Unione europea. Il presidente dell’Anp sarà infatti a Vienna il 14 marzo per incontrare il cancelliere austriaco Schuessel, presidente di turno dell’Unione, e il giorno successivo pronuncerà un discorso dinanzi al parlamento di Strasburgo: un’occasione importante per tentare di tranquillizzare i suoi interlocutori sugli “ultimi sviluppi” in casa palestinese e per toccare la delicata questione dei contributi europei all’Anp, per ora confermati in 120 milioni di euro ma condizionati in qualche modo al riconoscimento di Israele da parte di Hamas e al rispetto di tutti gli accordi sottoscritti dall’Olp e dall’Anp dal 1993 in poi, “road map” inclusa. Una missione dunque delicata quella di Abu Mazen, nei confronti della quale tuttavia gli esponenti di Hamas ostentano una sicurezza sostenuta dalla loro solida maggioranza. Il leader politico del movimento Khaled Meshaal, al termine della sua visita a Mosca, ha detto che «disgraziatamente tutti coloro che cercano di imporci condizioni mirano a barattare con il denaro i diritti del nostro popolo, ma questo non accadrà»; allusione anche troppo scoperta alla posizione non solo di Israele e degli Usa ma anche della stessa Unione europea. Meshaal si è detto anche fiducioso che i finanziamenti necessari potranno arrivare all’Anp «da donatori diversi da quelli tradizionali», il che tuttavia è ancora da dimostrare e avrebbe comunque evidenti ripercussioni sulla ripresa (peraltro ancora ipotetica) del processo negoziale.

Se così stanno le cose in casa palestinese, qualche elemento di novità, o almeno di movimento, si registra anche sul fronte opposto. Secondo l’ex-capo dei servizi di sicurezza israeliani Avi Dichter, candidato di spicco del nuovo partito Kadima (fondato da Sharon) per le elezioni di fine mese, il premier Olmert in caso di vittoria metterebbe rapidamente mano a un nuovo ritiro unilaterale, questa volta da diciassette insediamenti sparsi per la Cisgiordania (dove, si badi, ce ne sono circa duecento). L’ipotesi tuttavia è stata contestata da altri due esponenti del partito, vale a dire l’ex-premier laburista Shimon Peres e il ministro dell’istruzione Meir Sheetrit: il primo ha detto che ci si deve «incontrare con i palestinesi e negoziare con loro sulla base della road map», il secondo ha parlato di «definire i confini di Israele facendo concessioni importanti, ma senza ritiri unilaterali». Il fatto è che Olmert ritiene che con la vittoria di Hamas sia venuto meno «un interlocutore di pace»; ma forse un successo elettorale potrebbe indurlo a cambiare atteggiamento.