Con ogni probabilità finirà come in Bolivia. Là sulle Ande, il 17 dicembre, i sondaggi davano Evo Morales leggermente in testa ma a stretto contatto di gomito con Tuto Quiroga, il suo rivale «bianco» e neo-liberista, e invece l’indio cocalero vinse a valanga con più del 53% e divenne subito presidente. Qui nelle Antille, il 7 febbraio, i sondaggi davano René Préval lievemente in vantaggio sui suoi due rivali più accreditati, Charles Hanri Baker, l’industriale «bianco» e straricco, e Leslie Manigat, il preferito del business haitiano, ma non tanto da poter evitare il ballottaggio del 19 marzo. E invece, se i primi risultati saranno confermati, sarà il candidato delle masse povere e quello visto come il surrogato più vicino all’esiliato Aristide, a diventare subito presidente, senza bisogno di passare per il ballottaggio del 19 marzo. Le prime cifre fornite giovedì sera dal Consiglio elettorale provvisorio, con il 15% dei voti scrutinato, davano Préval al 61%. Lontanissimi, arrancavano i suoi due concorrenti, Manigat al 13 e Baker al 6%. Sorprendente terzo incomodo risultava invece un tal candidato Jeune Jean Chavannes, che i sondaggi non avevano intercettato per nulla e che invece, a Les Cayes e nel sud in cui è radicato, sta avendo fra il 18 e il 26%. E’ il segno dei danni prodotti e dell’influenza crescente, anche qui a Haiti, delle sette evangeliche di provenienza e matrice statutinetense. Questo Chavannes è un pastore battista, come suo padre, laureato in università americane della Christian majority che tanto ha contribuito alle elezioni di George Bush. A Haiti si calcola che grosso modo l’80% della popolazione sia cattolico e già il 20% appartenga alle varie confessioni protestanti ma soprattutto alle aggressive (e ricche) sette evangeliche di cui un po’ dappertutto si vedono templi e chiese.
Un’ascesa tanto più inquietante perché se è vero che la gerarchia cattolica haitiana e il nunzio vaticano non hanno mai amato Aristide fin da quando era solo il piccolo prete delle bidonvilles (da tempo, dopo essere stato sospeso dall’ordine dei salesiani, non è neanche più prete e si è sposato), c’era tutta una base cattolica di preti e suore della Ti Legliz, la piccola chiesa, che si richiamava ai poveri – qui sono più o meno l’80% della popolazione – e alla Teologia della liberazione. La chiesa cattolica, che la sa lunga, ha dovuto imparare a convivere sincreticamente con il vudú originario, le sette evangeliche – portatrici di una visione molto più «americana» della vita con promesse di felicità, soldi e salute qui e ora, non nell’aldilà – in America latina e Haiti sono sempre state, e in buona misura ancora sono, nemiche giurate del vudú (e, ça va sans dire, della sinistra).
Tutto lascia credere che la vittoria di René Préval sia cosa fatta. Era già nell’aria fin da martedì, quando si è visto l’entusiasmo e la pazienza con cui gli haitiani si sono messi in fila per andare a votare. Quella massa di elettori volevano andare a votare per Préval, non certo per il «bianco» Baker o per il vecchio ronzino Manigat. Era anche nell’aria nervosa e preoccupata dei mulatti chiari e abbienti di Pétionville e Kescoff, i sobborghi «ricchi» (e in qualche caso o casa scandalosamente ricchi) sulle colline che dominano Port au Prince. Se si prova a rincuorarli dicendo che in fondo Préval dovrebbe andare bene anche a loro perché non è un rivoluzionario, è probabilmente l’unico capace di stabilizzare una situazione incontrollabile fino a un mese fa – quando la violenza generalizzata è misteriosamente cessata – e di portare se non la pace almeno la tregua nella secolare guerra civile fra il 95% di neri e il 5% di mulatti e bianchi, non sembrano molto convinti. Sono convinti invece che da presidente Préval, a cui attribuiscono «l’ordine» impartito alle «gang» armate asseragliate a Cité Soleil (quando quell’ordine non sia dovuto direttamente ad Aristide dall’esilio di Pretoria…), gli scatenerà di nuovo contro la rabbia e l’odio accumulato dalle masse, vittime di due sanguinosi colpi di stato in poco più di dieci anni contro l’unico presidente «loro» che abbiano mai avuto (ed eletto), Jean Bertand Aristide: quello del settembre ’91 del generale Cédras (e degli americani) e quello del febbraio 2004 degli americani (e dei francesi). Credono anche che l’elezione di Préval porterà a un rapido e temutissimo ritorno entro poco tempo di Aristide dal Sudafrica e viene visto con sospetto l’arrivo qui a Port au Prince del vescovo Desmond Tutu.
Se le masse sperano e l’oligarchia bianca-mulatta ha paura, la «comunità internazionale» è soddisfatta. Confida nella moderazione di Préval, già mostrate quando fu presidente della repubblica fra il 1996 e il 2001, nella sua capacità di stabilizzare una situazione in cui la Missione Onu di stabilizzazione ha fallito, nella loro capacità di condizionare lui e il suo governo con alcuni ministri-chiave «sicuri». Anche gli americani sembrano tranquilli: «Nessuno dei tre principali candidati costituisce un problema per il governo degli Stati uniti», ha detto ieri qui a Port au Prince il diplomatico Tim Carney. Sperano che il sessantatreenne agronomo laureato all’università belga di Lovanio compia il miracolo e riesca a tappare l’inferno che l’arrogante stupidità del presidente Bush e della signora Rice hanno aperto con il golpe mal mascherato di due anni fa. E’ vero che Préval in gioventù è stato comunista ed era considerato l’uomo di Aristide, ma quelli erano altri tempi.
Se si pensa all’estrema peculiarità di Haiti rispetto alla Repubblica Dominicana, con cui divide l’isola di Hispaniola, e a Cuba e alla Giamaica, le altre maggiori isole caraibiche – anche se la costa orientale cubana dista solo 80 chilometri da Haiti -, forse è esagerato dire che l’onda lunga dell’America latina sia arrivata fin qui e abbia sospinto Préval alla vittoria del 7 febbraio. Esagerato ma perché non crederci e sperarlo?