Calma piatta ma tesissima su Haiti dove oggi si vota. Per la prima volta dal golpe mal mascherato con cui il 29 febbraio del 2004 gli Stati uniti, seguiti da Francia e Canada, organizzarono la seconda cacciata di Jean-Bertrand Aristide. Il voto di oggi, imposto dalla «comunità internazionale» e gestito dall’Onu, qualunque sia il giudizio che gli si dia, suona come la legittimazione a posteriori del golpe con cui un presidente costituzionale, per quanto contestato dentro e fuori il paese, fu messo su un aereo militare americano e spedito in esilio.
In questi giorni Haiti è ancor più lontana e sola del solito. American Airlines e Air Canada hanno cancellato i loro voli quotidiani da Miami, New York, Toronto e Montreal nel timore che qui possa succedere il finimondo oggi e quando si conosceranno i risultati.
Cacciato Aristide, a partire dalla metà del 2004 Haiti è stata messa sotto protettorato internazionale dopo il voto del Consiglio di sicurezza che ha costituito la Minustah, la Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione haitiana. I caschi blu sono arrivati in forze e hanno preso in mano il controllo totale, civile e militare, del paese più povero, derelitto e indocile del continente americano, senza tuttavia poterlo stabilizzare. 7500 soldati della più svariata provenienza – brasiliani soprattutto, argentini, cileni, guatemaltechi, sri-lankesi, filippini, giordani… – e 1700 poliziotti in prevalenza canadesi. Un brasiliano, il generale Carvalho Siqueira, è il capo militare della Minustah. Un cileno, l’ex ministro degli esteri socialista Juan Gabriel Valdés, è il capo civile. Non si leggono nomi e non si vedono in giro statunitensi. Ma ci sono e, come sempre a Haiti, chi tira le fila è l’ambasciatore americano a Port au Prince, prima Mr.Foley e ora Mrs. Janet Sanderson. Tutto quello che c’è qui viene dagli Usa ed è made in Usa, Haiti importa tutto e non produce praticamente più niente, se non un caffè eccellente e il favoloso rum Barbacourt. Quel po’ che produce è maquila per l’America, ottimamente dislocata qui dove i sindacati non esistono e i salari sono di 1 o 2 dollari al giorno – qualche componente elettronica non sofisticata, assemblaggio, abbigliamento e articoli sportivi: a un certo momento, come ha scritto Eduardo Galeano, Haiti era il principale produttore mondiale di palle da baseball essendo qui il baseball uno sport sconosciuto.
Un classico intervento di ingerenza umanitaria con tanto di avallo del Consiglio di sicurezza, come quelli che piacciono alle varie emmebonino in versione maschile o femminile. Per di più affidato a «paesi fratelli» dell’America latina. Non è un caso che Valdés, intervistato l’altra sera da una tv haitiana, abbia ricordato che il Cile all’inizio del 2003 ha votato no in Consiglio di sicurezza all’intervento americano in Iraq ma invece ha detto sì all’operazione peace-keeping per Haiti a metà del 2004, quando c’era la copertura dell’Onu. Non ha detto però che in Cile come in Brasile e in Argentina ci sono settori che chiedono il ritiro immediato dei rispettivi contingenti in quanto più che un’operazione umanitaria vedono quella di Haiti come un’occupazione per conto degli americani che, una volta tanto, hanno deciso di non sporcarsi le mani alla luce del sole.
Dopo la cacciata di Aristide è stato messo in piedi un governo provvisorio guidato da un innocuo presidente della repubblica – Alexandre Boniface, ex giudice della Corte suprema – e da un docile primo ministro – Gerard Latortue, ex funzionario Onu -, che in questi due anni ha governato (si fa per dire) senza il parlamento, che è scaduto e sarà rinnovato oggi. Il suo primo atto è stato quello di mandare in galera l’ultimo premier di Aristide, Yvon Neptune, sotto l’accusa di aver ordinato alla polizia haitiana, come capo del governo, di reprimere la rivolta armata del 2003 che, alimentata e finanziata dagli americani, servì da pretesto per il golpe del febbraio 2004. Neptune, come un numero imprecisato ma consistente di seguaci del presidente deposto e del suo partito Fanmi Lavalas, è in carcere da 18 mesi mentre l’ex generale Raoul Cédras, l’autore del primo golpe anti-Aristide nel settembre `91, sverna a Miami o Porto Rico e Toto Constant, il capo delle squadracce che fra il `93 e il `94, prima del ritorno di Aristide sulle spalle dei marines mandati da Clinton, sterminarono migliaia di suoi sostenitori per conto dei militari, vive tranquillo nel Maine (come il terrorista cubano-venezuelano Posada Carriles vive tranquillo in Florida). Il massimo è Louis Jodel Chamblain, uno dei caporioni della sanguinosa rivolta armata del 2003, che se ne sta addirittura in una suite dell’hotel Ibo-Lele, qui sulle colline di Pétionville, vicino di stanza di militari e civili della Minustah. Come se, fatte le debite proporzioni, il generale Mladic vivesse nello stesso albergo della missione Onu a Sarajevo.
Secondo gli americani, Valdés e certi settori «democratici» ed economici di Haiti le elezioni di oggi sono la via unica e obbligata per la stabilizzazione e ridemocratizzazione del paese. Secondo altri, e non solo i miserabili che vivono asseragliati e armati nell’impenetrabile Cité Soleil di Port au Prince, sono «una farsa» che non porterà a nessun «consenso nazionale» ma solo a una nuova-vecchia polarizzazione, sempre più cruenta e sanguinosa. Per questo, forse, si assiste al paradosso che il favorito René Preval (ex premier con Aristide nel `91 e poi suo successore alla presidenza della repubblica fra il 1996 e il 2001), con il suo partito Lepswa, la Speranza, è allo stesso tempo il candidato dei settori più diseredati, in cui Aristide fa ancora presa, e anche quello su cui puntano – magari obtorto collo – l’Onu e gli americani. La loro speranza è che sia l’uomo capace di rimettere un coperchio a quell’infernale vaso di Pandora che il presidente Bush e la signora Rice hanno stupidamente aperto organizzando due anni fa la caduta di Aristide, convinti che via lui tutto si sarebbe rapidamente sistemato. Più che un simulacro di voto «democratico», Haiti avrebbe avuto bisogno di un intervento internazionale umanitario in senso pieno per ricostruire, innanzi tutto, un minimo di tessuto economico e sociale, politico e umano. Con le elezioni come ultimo atto anziché primo e fasullo.
Si vedrà cosa succederà oggi e, soprattutto, a partire da domani.