Nella raffica di elezioni che quest’anno potrebbero cambiare, e hanno già cambiato, la mappa politica dell’America latina, ci sono anche le elezioni a Haiti, dove si vota martedì dopo 5 rinvii e per la prima volta dopo il golpe mascherato che ha rovesciato il presidente Jean Bertrand Aristide il 29 febbraio del 2004. Ma, chiunque vinca, scordatevi l’America latina. Qui tutto richiama e rimanda all’Africa. Il colore nerissimo della pelle, i pochi mulatti e i pochissimi bianchi, i capelli crespi delle ragazze stirati a fatica, le donne del mercato con in mezzo alle gambe nude e spalancate il cesto ricolmo della loro mercanzia, il traffico pazzesco e selvaggio a clacson pigiato, la sporcizia e i rifiuti marciti al calore che nessuno raccoglie da secoli, gli odori violenti e il gridare perenne. Fino alle danze licenziose e ai ritmi ossessivi del vudú anche nella sua evoluzione più «moderna». Fatica di vivere ma anche gioia. Haiti non è, o non sembra, America latina eppure l’America latina non sarebbe America latina senza Haiti. E non solo perché ai primi dell’800 la giovanissima e già allora poverissima repubblica mandò armi e soldi al libertador Simon Bolivar. Agli indigeni ci sono voluti 500 anni di resistenza prima di riuscire a rialzare la testa, alla fine del 2005, con Evo Morales. Duecento anni prima, l’1 gennaio 1804, sull’onda della grande rivoluzione nata in Francia e arrivata fin qui, la rivolta degli schiavi africani di Haiti – dove i conquistadores spagnoli e francesi avevano già sterminato gli indios Arawak e Taíno – portò il generale Dessalines, ex-schiavo nato in Guinea e comandante in capo dell’Armée indigène, a firmare alle Gonaïves l’Acte de la indipéndence in cui si giurava solennemente di «rinunciare per sempre alla Francia e di morire piuttosto che vivere sotto la sua dominazione». Era il sanguinoso atto di nascita della prima repubblica nera del mondo e del primo paese indipendente dell’America latina. Quella vittoriosa rivolta dei giacobini neri contro gli abomini della schiavitù su cui si fonda la nostra democrazia capitalista, è una stigmate da cui Haiti, che nella lingua dei Taínos voleva dire il paese delle montagne, non si è mai più liberata. Oggi le statue dei padri fondatori di Haiti, Jean-Jacques Dessalines, Toussaint Louverture, Henri Christophe e Alexandre Petion troneggiano imperiose, accanto a quella di Marron Inconnu, lo schiavo ignoto che dà il segnale della rivolta, e alla bizzarra torre triangolare innalzata per le celebrazioni del bicentenario dell’indipendenza, sulla Place des Herós de l’Indépendence, nel Champ de Mars a fianco del Palais national – la bianca residenza del presidente della repubblica costruito sulla falsariga della White House di Washington e finito nel 1918, quando il primo «intervento umanitario» dei marines americani era appena cominciato – e al Panthéon National, il museo che contiene scolpiti i nomi di coloro che si batterono per la liberazione, la «campana della libertà» suonata da Louverture nel 1793 al momento in cui proclamò la liberazione generale degli schiavi e la memoria degli obbrobrii della dominazione bianca sugli indiani e poi sui neri dal giorno maledetto, il 24 dicembre del 1492, in cui la Santa Maria di Cristoforo Colombo entrò nella baia Caracol, non lontano da Cap Haïtien.
La maledizione haitiana
Come la Bolivia del possibile riscatto indiano è il paese più povero del Cono sud, Haiti cherie, «la perla delle Antille», è da 200 anni il paese più povero dell’America latina. E del mondo, fuori dall’Africa. Ma Haiti non è fuori dall’Africa, semmai un pezzo d’Africa nel cuore dei Caraibi. Dice René Depestre, uno degli esponenti di punta di quella sfavillante cultura haitiana che fa da misterioso contraltare alla sua miserabile condizione sociale e politica: «Due secoli dopo l’indipendenza degli schiavi di Santo Domingo – evento maggiore nella storia politica e culturale delle civiltà – Haiti è immobile sotto la soglia della miseria assoluta». Sulla «maledizione haitiana», dice Pierre Raymond Dumas, giornalista di Le Nouvelliste, uno dei giornali di Port au Prince: «I fallimenti cocenti registrati in materia di transizione democratica, sui piani dell’educazione, della salute, dell’ambiente, della sicurezza, dell’agricoltura, per quel che concerne i nostri capitali e i nostri cervelli che emigrano all’estero, lasciano prevedere un inesorabile declino piuttosto che una sovranità ritrovata».
Si è detto che per la maggior parte degli ultimi due secoli Haiti era uno Stato senza una nazione. Ora il rischio concreto è che non sia neppure più uno Stato. A Haiti non c’è Stato e non solo perché non c’è un sistema di raccolta dei rifiuti e non c’è un sistema fognario, perché i telefoni non vanno e non ci sono ospedali, perché la scuola obbligatoria e gratuita è una finzione e la giustizia una chimera. Haiti non è più, ammesso che lo fosse in qualche fase della sua storia tormentata, un paese indipendente e sovrano, neppure di quell’indipendenza e sovranità formali che coprono in tanti paesi dell’America latina e del mondo «altro» dipendenze e vassallaggi più o meno assoluti. Dopo gli spagnoli e i francesi, gli americani, che dal 1905 controllavano già la Repubblica Dominicana e arrivarono qui per la prima volta nel 1915. La politica degli Stati uniti verso gli Stati dell’America latina era allora quella che il presidente Theodore Roosevelt aveva chiamato del big stick, il grosso bastone, anche se già in quei tempi la faccia buona dell’America, nella persona del democratico Woodrow Wilson, rispondeva nel 1914 alla Germania di Cecco Beppe, che voleva la sua parte del bottino a Haiti attraverso il controllo delle dogane, che «il governo degli Stati uniti ha sempre ritenuto suo dovere impedire situazioni che metterebbero in pericolo l’indipendenza politica o quanto meno la completa autonomia dei suddetti Stati, in qualità e ogni qualvolta essi abbiano avuto bisogno di un amico e di un difensore».
L’occasione che gli americani aspettavano fu quando il presidente haitiano Guillaume Sam, che si rifiutava di firmare un patto di assistenza militare e di cedere loro il controllo completo delle dogane e della Banque de Haiti, allora in mani francesi, fece fucilare 200 prigionieri politici. Una rivolta popolare prese d’assalto il palazzo presidenziale e fece a pezzi Sam che si era nascosto sotto il letto. L’ammiraglio americano Caperton, che seguiva gli eventi a bordo dell’incrociatore Washington ben in vista alla fonda nella baia di Port au Prince, non poté esimersi da quel primo intervento umanitario e ordinò lo sbarco immediato di due compagnie di fucilieri di marina e tre compagnie di fanteria. Gli yankees, come allora si chiamavano, presero rapidamente il controllo totale di Haiti, scrivendo per prima cosa una nuova costituzione che abrogava la clausola presente nelle 16 precedenti che proibiva agli stranieri di possedere o affittare terre e organizzando una Gendarmieria nazionale. L’occupazione americana, affidata spesso a ufficiali sudisti degli Stati uniti, «perché loro sapevano come trattare con i negri», provocò rivolte cruente represse in modo cruento e portò alla «modernizzazione» del paese: le strade, i telefoni, le fogne e gli ospedali i cui resti fatiscenti si soffrono oggi girando per Port au Prince e per Haiti.
L’umanitarismo imposto a bastonate durò 19 anni, fino all’avvento di Delano Roosevelt, che nel 1934 arrivò qui in visita di cortesia e ordinò ai marines di tornare a casa. Ma restò il controllo completo degli Stati uniti sull’amministazione delle dogane e quindi sull’economia di Haiti.
E’ restato anche dopo. Nel `57 quando per la prima volta fu eletto Papá Doc Duvalier, con il suo esotico cocktail di nazionalismo, di negritudine razzista, di misticismo vudú e soprattutto con i suoi Tonton Macoutes, gli uomini anch’essi neri di un racconto popolare haitiano che di notte si portano via i bambini cattivi. Poi nel `71, alla morte di Papá Doc, quando gli successe Baby Doc Duvalier, il figlio, fino a che nel febbraio dell’86 gli dissero che era venuto il momento di togliere il disturbo e andare a svernare sulla riviera francese perché il paese rischiava di esplodere e un piccolo «prete delle bidonville» chiamato Aristide ed esponente della Ti Legliz, la chiesa dei poveri, incendiava le masse dal pulpito della parrocchia di San Giovanni Bosco nel miserabile quartiere di La Saline e dalle onde di Radio Soleil.
Controllo totale
Poi fino al `90, quando provarono a gestire una specie di duvalierismo senza Duvalier con i generali Namphy e Avril. E ancora nel settembre del `91, quando un altro generale chiamato Raoul Cédras – oggi a godersi i meritati frutti del suo lavoro a Miami o Puerto Rico – rovesciò Aristide, eletto a sorpresa e a valanga nel `90, con un golpe sanguinoso. E ancora nel `93, con Bill Clinton, responsabile di buona parte dello sfacelo attuale. Clinton, in campagna elettorale contro Bush padre, aveva promesso di fermare la brutale politica americana rispetto ai boat-people haitiani che venivano inesorabilmente rispediti a Haiti, o al massimo a Guantanamo dove fungevano da cavie per il successivo arrivo di «terroristi» islamici. Poi doveva tenere fede ai suoi impegni di ristabilire la democrazia nel mondo, quindi di riportare Aristide al Palais National di Port au Prince. Infine, doveva fare qualcosa per fermare il colossale traffico di coca che dalla Colombia aveva fatto di Haiti un fantastico snodo da 700 milioni di dollari al mese.
Dopo gli accordi a tre di Governos Island del `93 e un bel mucchio di altri morti ammazzati, un Aristide che non era più lui tornò a Haiti nel settembre del `94 sulle spalle di 20 marines. Anche nella nuova uscita di scena di Aristide, fine di febbraio del 2004, truccata da ribellione della «società civile» gli americani ebbero la parola definitiva, se non il «negro buono» (e un po’ fesso) Colin Powell che ancora il 13 di quel mese dichiarava candidamente che «noi non accetteremo nessun esito che si traduca in una partenza illegale del presidente eletto di Haiti», dei settori più falchi dell’amministrazione di Bush figlio – i neo-con di Wolwowitz – che invece avevano optato fin dall’inizio per un nuovo regime change. Haiti è Africa ma Haiti è anche America, nel senso di Stati uniti.
E’ chiaro a tutti che le elezioni di dopodomani, qui, non potranno essere né libere né democratiche, anche se le forme saranno forse rispettate e chiunque dei 34 candidati presidenziali e dei 47 partiti in lizza per il parlamento le vincerà. Lo prova anche solo la cancellazione annunciata da American Airlines e Air Canada di tutti i voli per Port au Prince, che tagliano fuori Haiti dal mondo. A gestire Haiti stavolta è la «comunità internazionale» con una Missione di stabilizzazione dell’Onu per Haiti, la Minustah, votata in Consiglio di sicurezza nel 2004. 7500 soldati sotto comando brasiliano e 1700 poliziotti sotto comando canadese. Che se sono riusciti a imporre, dopo 5 rinvii, le elezioni, non sono riusciti a stabilizzare per nulla la situazione.