Haifa si piega alla guerra

Gli abitanti di Haifa hanno capito di essere diventati parte del fronte di guerra non il giorno in cui i katiusha sparati dalla guerriglia di Hezbollah hanno ucciso otto dipendenti dell’azienda ferroviaria, ma quando decine di giornalisti di tutto il mondo hanno cominciato a riempire hotel e pensioni. All’improvviso questa città israeliana che parla male l’inglese e se la cava meglio con l’arabo della sua minoranza palestinese e il russo delle decine di migliaia di immigrati giunti dall’ex Urss, ha visto sfrecciare a tutta velocità nelle vie del centro i fuoristrada giganteschi dei giornalisti e tecnici della Cnn, osservato il passaggio lento dei furgoni della Jcs di Gerusalemme con le antenne e le apparecchiature per le trasmissioni satellitari, seguito il passaggio di decine di automobili con la scritta «Press». Tra i primi a prendere posizione davanti alle telecamere, microfono in mano e baia di Haifa alle spalle, l’inviato di Jazeera, Walid Omari. «In poche ore questa città è diventata come Gerusalemme – dice Avi, uno studente universitario – giornalisti sparsi in po’ ovunque, producer alla ricerca di storie da filmare e raccontare e noi un po’ spaesati a rispondere a tante domande».
Haifa avrebbe preferito rinunciare a tanta notorietà. Pigramente adagiata sulla costa mediterranea, dominata dalle alture del Carmelo, in questo periodo dell’anno la città si trasforma in un enorme villaggio turistico affollato di bagnanti provenienti da tutta la Galilea. Migliaia di persone che si contendono una piccola spiaggia che non ha saputo allargare neppure l’impegnato ex sindaco progressista Amram Mitzna, leader laburista solo per una stagione politica, scomparso nel nulla come molti esponenti del periodo della «pace di Oslo». Ora invece è quasi deserta, la gente sta in casa e solo pochi coraggiosi vanno al mare sfidando l’ira di pattuglie della polizia che mettono in guardia dall’arrivo dei katiusha. «I primi giorni sono stati duri, non eravamo abituati al clima di tensione che vivono altre città. I morti della stazione ferroviaria hanno provocato panico in molte famiglie ma poi è sopraggiunta l’abitudine a questa nuova atmosfera. Non possiamo far altro che sperare che la guerra finisca presto e riprendere la vita che facevamo prima», dice Yacov Stoichov, 36 anni, giunto in Israele da Kiev nel 1990, durante l’ultima vera ondata immigratoria.
Haifa, secondo porto di Israele, non è mai stata un città nota per la vita notturna e i divertimenti. Non ha l’appeal di Tel Aviv e di altre cittadine sulla costa. Piuttosto deve la sua notorietà proprio alla tranquillità e, soprattutto, alle buone relazioni, almeno relativamente ad altre città israeliane, tra la maggioranza ebraica e la minoranza palestinese, chiamata da queste parti «araba israeliana». Relazioni antiche, che in parte si fondano sulle radici operaie della città, dove, a turno, si sono ribellati gli ebrei sefarditi discriminati da quelli ashkenaziti e i palestinesi decisi a non rimanere in silenzio di fronte alle violazioni dei loro diritti. Conversare in arabo in strada ad Haifa non ti espone ad uno stop immediato seguito da un rapido interrogatorio da parte della polizia, come di solito avviene a Gerusalemme o a Tel Aviv. E non è insolito per ebrei e arabi vivere negli stessi quartieri e frequentarsi. «Certo, alla fine della giornata, i rapporti di forza tra la maggioranza e la minoranza non cambiano, ma senza dubbio ad Haifa si vive in un clima che non si registra in nessun altra citta’ di Israele», spiega Nadim Nashef, direttore dell’Ong araba «Baladna» che organizza campi di lavoro per giovani europei e palestinesi. «L’auspicio – aggiunge – è che l’offensiva in Libano e i razzi katiusha non spacchino una popolazione che sino ad oggi ha vissuto nel rispetto reciproco ma, al tempo stesso, dobbiamo essere realisti e prevedere che in futuro potrebbe non essere più come prima».
La devastante offensiva israeliana contro il Libano, le centinaia di civili massacrati, le centinaia di migliaia di sfollati libanesi, i razzi katiusha che per la prima volta hanno colpito Haifa uccidendo israeliani ebrei, hanno fatto emergere tensioni rimaste sotto la cenere per troppo tempo e che i rapporti di «buon vicinato» non riescono più a mascherare. «Non ho niente contro gli arabi che vivono in Israele e ad Haifa in particolare, ma a loro dico che devono prendere una posizione netta, in questo momento devono dimostrare la loro fedeltà allo Stato di Israele e condannare il rapimento dei due soldati (lo scorso 12 luglio da parte di Hezbollah, ndr) e il lancio dei katiusha», dice con tono perentorio Ido Kraft, un impiegato statale. Quello della fedeltà allo Stato ebraico della minoranza araba, dice una giornalista palestinese (che ha chiesto di non riportare il suo cognome) è il tema che infiamma le discussioni nei periodi di «guerra». «L’accusa che ci viene rivolta è quella solita, ovvero essere la quinta colonna del nemico e di mettere a rischio la sicurezza del paese. La novità di questa ultima offensiva israeliana è che per la prima volta queste accuse sono parte del dibattito anche ad Haifa e ciò è un indicatore importante del cambiamento avvenuto nei rapporti tra le comunità nella nostra città», spiega la giornalista diplomata all’università di Tel Aviv. «E’ anche vero tuttavia che la minoranza palestinese in Israele vive in questi giorni un conflitto interno molto importante – prosegue – da un lato non approva il lancio dei katiusha perché colpisce persone innocenti, dall’altro però prova orrore per il massacro quotidiano di tanti libanesi e condanna con forza l’offensiva militare lanciata dal ministro della difesa Amir Peretz (laburista) che, peraltro, alle elezioni di marzo aveva raccolto una quota significativa dei voti arabi».
Ghassan, palestinese, funzionario di banca nella zona centrale del Carmelo, non ha difficoltà a riconoscere che il conflitto interno tra gli arabi di Haifa ha toccato vette estreme. «La nostra aspirazione alla completa parità con gli ebrei è stata tradita anche in questa città che viene definita un modello di coesistenza tra arabi ed ebrei – spiega sistemandosi la cravatta – Con Mitzna sindaco qualcuno di noi aveva cominciato a sognare, poi quando è cominciata l’ Intifada (nei Territori occupati, ndr) polizia e servizi di sicurezza hanno cominciato a trattarci come terroristi potenziali e abbiamo capito che Israele sino a quando si definirà uno Stato ebraico noi non potremo mai essere uguali al resto della popolazione». Ghassan non nasconde di provare forte simpatia per lo sceicco Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah. «Non sono d’ accordo con il suo desiderio perenne di combattere ed inoltre io riconosco l’esistenza di Israele, ma non posso negare che provo soddisfazione per le lezioni che i suoi uomini stanno dando ai soldati israeliani», afferma accennando un sorriso. Gli abitanti ebrei di Haifa sostengono di sapere bene che «gli arabi stanno dalla parte di Nasrallah». «Presto si pentiranno di ciò – protesta Ido Kraft – Israele un giorno deciderà di cacciarli via e i miei vicini arabi possono esser certi che non sarò certo io ad aiutarli».