Guerra in Iraq – La sindrome Vietnam nel destino di Bush

Il rapporto dell’Iraq Study Group, la commissione presieduta dal democratico Lee H. Hamilton e da James Baker III, repubblicano e fedelissimo della famiglia Bush, è, prima di ogni altra cosa, uno schiaffo al presidente. Lo scrive molto chiaramente il “New York Times”. Uno schiaffo perché tutta la politica irachena della Casa Bianca è capovolta; perché il documento ha un carattere molto “bipartisan”, anzi fa troppe concessioni ai democratici; perché nessuna concessione viene fatta alla retorica “democratica” presidenziale.
Una prima domanda sorge immediata, come mai il “fedelissimo” James Baker ha consentito che uscisse un documento che il presidente ha trovato molto duro? Anzi, più che consentito. A ben leggere tra le righe si ritrova molto della personalità del vecchio segretario di Stato di George Bush padre: una concezione pragmatica nell’interesse degli Stati Uniti; la convinzione che solo trattando a oltranza si possa giungere a accordi stabili e che la diplomazia esiga il coinvolgimento di quanti più paesi interessati, alleati, neutrali, nemici. Una visione imperiale ampia, lontanissima dai due poli tra i quali ha oscillato la politica estera di Bush: il quasi isolazionismo prima dell’11 settembre 2001 e l’interventismo tutto muscoli e retorica del periodo successivo.
James Baker, chiamato a soccorso del giovane Bush, per la seconda volta dopo sei anni, cerca di indicargli una via possibile per tirarsi fuori dall’incubo iracheno, ma allo stesso tempo si prende una rivincita. Per capire il senso della rivincita bisogna andare indietro, di sei anni appunto, al novembre del 2000, quando James Baker, consulente legale della campagna elettorale di George W. Bush, fu l’artefice dell’intervento della Corte Suprema sul molto dubbio voto della Florida. Diventato presidente, George W. non fu riconoscente e scelse di allearsi con i neocon che lo avrebbero trascinato nel disastro iracheno. Così James Baker oggi dichiara: «Non so cosa vorrà fare il presidente. Ma so che vuole affrontare il problema con approccio bipartisan e in modo da avere il sostegno del popolo americano. Questo è lo strumento per fare tutto ciò». In altre parole, la minestra va ingoiata così come è.
Si è detto che la guerra in Iraq sia stata vissuta dal giovane Bush come una sorta di risarcimento dovuto a suo padre, che si era dovuto fermare alle porte di Baghdad; da un altro punto di vista tutta la politica statunitense dall’11 settembre in poi può suonare come una critica aspra alla prudenza del vecchio Bush e dei suoi.
Ma le cose non sono andate come la retorica dei neocon prevedeva, la guerra lampo di Rumsfeld si è trasformata in una palude che ha inghiottito per primo lui stesso e che ora minaccia di trascinare anche l’incauto e non lungimirante presidente. Così James Baker, chiamato a soccorso, indica una via che, secondo molti, è troppo indigesta per George W.Bush, il quale ha già fatto sapere che di trattare con Siria e Iran (un punto chiave delle raccomandazioni del rapporto) non se ne parla nemmeno. Quindi i commentatori si chiedono se la ricetta Baker potrà funzionare alla Casa Bianca di oggi, ma la questione è se la ricetta possa funzionare comunque.
A leggere il documento si respira un’aria antica e già sentita, i suoi estensori, uomini della generazione del Vietnam, sembrano ispirarsi alla politica di Nixon, a quella che fu chiamata a suo tempo la vietnamizzazione del conflitto. Nixon capì che l’opposizione interna alla guerra del Vietnam sarebbe stata indebolita se fosse cessato il “body count”, il macabro elenco dei caduti americani, angoscia quotidiana di ogni famiglia con un parente sui campi di battaglia del sud est asiatico. Si trattò di una politica complessa che puntò a coinvolgere Cina e Unione Sovietica e che si basava da un lato sulla trattativa con il governo di Hanoi, dall’altro sul rafforzamento militare del governo di Saigon. Funzionò sul piano interno, ma, come sappiamo, fallì completamente in Vietnam concludendosi con lo spettacolo degli elicotteri che portavano via gli ultimi americani da Saigon pronta a cadere.
Le differenze storiche sono tante. Nixon aveva un interlocutore ben definito, il governo di Hanoi, un alleato sicuramente debole, ma che combatteva per la sua sopravvivenza e che aveva dalla sua almeno una parte della società del Vietnam del Sud; gli interlocutori internazionali erano Cina e Unione Sovietica con i quali gli Stati Uniti conducevano da tempo una politica di dialogo e di distensione.

Nessuna di queste condizioni esiste oggi, Bush non sa chi sono i suoi nemici, non può fidarsi del governo iracheno che si è dimostrato incapace. Anzi, di più, è almeno in parte ostile agli Stati Uniti, e soprattutto diviso tra fazioni in guerra permanente tra di loro. Insomma gli americani non sanno nemmeno precisamente contro chi combattere e con chi allearsi. Sul piano internazionale poi, i paesi che dovrebbero in qualche modo garantire la riuscita del piano (Iran e Siria), sono stati trattati fino a ieri, e pare anche oggi, come “Stati canaglia”, nemici inaffidabili e non rivali credibili.
In questo quadro si può giungere rapidamente alla conclusione che se la vietnamizzazione non funzionò, la irachizzazione funzionerà ancora meno. Ma qualcosa può andar bene dal punto di vista del presidente che per questo dovrebbe essere grato a Baker: il piano potrebbe ritardare il momento temuto di un ritiro ignominioso dall’Iraq.
George W. Bush, azzoppato gravemente, quasi paralizzato, dal risultato elettorale delle elezioni di medio termine, ha una sola preoccupazione non passare alla storia come il presidente che ha dato agli Stati Uniti una seconda sconfitta militare, dopo essere stato lodato per aver superato la “sindrome del Vietnam” e, per qualche tempo, ridato ruolo alle forze armate e al prestigio degli Stati Uniti, unica grande potenza. Sa che non può essere riletto, ma il piano dell’Iraq Study Group gli dà l’occasione di passare l’onere della sconfitta a un suo successore, dopo aver coinvolto tutti amici e nemici in un tentativo di exit strategy che non sarà ne facile né indolore. Soprattutto per le popolazioni dell’Iraq.