Guerra e dolore nel corpo di Napoli

La scena iniziale dell’incredibile e avvincente Gomorra (Mondadori, 331 pagine, 15,50 euro), del ventisettenne Roberto Saviano, ci porta senza indugi nell’inferno napoletano: da un container sollevato cadono decine di uomini cinesi senza vita. Questo shock iniziale permette a Saviano di portarci, con tesa disposizione, nei traffici del porto di Napoli (porta d’Europa per la Cina), nel mondo tutto sommerso dell’economia illegale di Napoli, e in quell’extramondo chiamato camorra. I protagonisti di Gomorra sono cinesi, spacciatori, camorristi, sarti, killer, e tutta una serie di persone di «secondo livello» che presidiano il territorio casa per casa, strada per strada. Dal 1979 al 2005 i morti per camorra sono stati 3.600. E di questa guerra Saviano ci racconta tutto, soprattutto il clima, i gesti, le facce. Questo libro non è un romanzo, però non è neanche un saggio: è un grumo inestricabile di documentazione, rabbia, diario, narrazione e reportage. Gomorra è, probabilmente, il primo libro che prova a raccontare da «dentro» il variegato mondo della camorra, epperò questo stare «dentro» pone tutta una serie di domande – etiche ed estetiche – a cui bisogna provare a dare una risposta.
La prima questione potremmo sintetizzarla così: c’è una letteratura «di pace» e una letteratura «di guerra»; una letteratura, cioè, sui tempi della pace – e sui sentimenti -, e una letteratura che si alimenta della guerra, cioè di fatti e di azioni «forti». Quando si parla di decadenza occidentale, o europea, non si tiene mai conto delle difficoltà di fare letteratura in tempi «di pace» – una letteratura, cioè, su sentimenti nascosti e segreti, su piccoli drammi, su impercettibili movimenti della società; o, in casi estremi, sul nulla, o sul vuoto. Cos’avrebbero scritto, mettiamo, Franco Cordelli o Claudio Magris, se fossero vissuti nella Berlino del 1945, o nella Scampia degli ultimi quindici anni? Siamo poi sicuri che i «puri fatti», o il Male – il Male della Storia, non della coscienza individuale – siano sempre porte principali per entrare nel segreto dell’uomo, nella sua profondità? Al di là dell’impatto emotivo che cambia, è più efficace e più profonda la letteratura «di pace» o la letteratura «di guerra»?
Sergio Pent, recentemente, su Tuttolibri de La Stampa, recensendo il libro di Saviano, diceva che sono libri come questi a permetterci di conoscerci in quanto italiani (e poi, un po’ ingenuamente, parlava di neorealismo). Ora, è dalla metà degli anni Novanta che c’è un «neo-neorealismo» nella letteratura italiana: un «neo-neorealismo» «di genere» (da Lucarelli a Baldini, da Genna a Carlotto, ecc.) e un «neo-neorealismo» in specie meridionale (da Montesano a Braucci, da Abate a Pascale, ecc.). Pure, non è mancata una letteratura «neo-neorealista» ibrida o di confine: dal viaggio irpino di Franco Arminio alla Caserta di Antonio Pascale, dal saggio ultimo di Angelo Ferracuti Le risorse umane – eccellente scrittore «di provincia», come anche Aurelio Picca, Claudio Piersanti e Francesco Permunian – all’epicedio di Antonio Franchini su Giancarlo Siani, giornalista «abusivo» assassinato dalla camorra. In verità, di «neo-neorealismo» ne abbiamo avuto fin troppo, in questi ultimi dieci anni (dopo gli anni Ottanta «commerciali» e pieni di romanzi storici). Se poi pensiamo al «precariato», tanto per fare un esempio, nel giro di pochi mesi sono usciti molti libri sull’argomento: dal libro di Nove a quello di Bajani, da quello di Desiati a quello di Aloia. La domanda è: quanti di questi libri dureranno nel tempo? Quanto «neo-neorealismo» reggerà alla prova dell’assoluto?
La recensione di Pent contiene un’ingenuità abbastanza indicativa: l’idea, cioè, che sia il Male a raccontarci, che sia il crimine, il sangue, la realtà più «bassa» a dire le grandi verità sull’uomo, sul nostro tempo. Basta leggere un libro recentemente uscito per Adelphi, Ossa nel deserto, di Sergio Gonzàlez Rodrìguez, per avvertire la tentazione di cadere nel tranello: nel tranello del Male, precisamente. Come in Gomorra di Roberto Saviano, anche in questo testo stupendo siamo trascinati in una spirale di angoscia e di stupore (lo stupore per l’infinità del deserto), in una «guerra» che ci fa sentire «fuori dalla vera vita», come se la vera vita fosse sempre, per uno scrittore, il Male assoluto, un male sempre più grande. Siamo proprio sicuri che questi testi così «reboanti» (così mozzafiato) non siano colmi di suspense e di colpi di scena, proprio come accade nei romanzi di genere, magari commerciali? Siamo sicuri, poi, di riuscire sempre a essere vigili, cioè a scoprire in questi testi l’incapacità di raccontare le psicologie e i sentimenti? Cioè, riusciamo sempre a distinguere i «fatti» dai «sentimenti»? La capacità di orientarsi e di valutare, perciò, diventa fondamentale.

Come le «Ossa nel deserto»
La vera letteratura è sempre onesta, mentre la letteratura «di pace» è una letteratura che racconta l’anima dell’uomo, la sua psicologia, i suoi sentimenti anche in assenza di clamori esteriori, cioè di teatralizzazioni (l’omicidio immaginato è importante quanto quello realizzato, per esempio). La vera letteratura non usa il male, ma semmai se ne fa usare, non racconta la tecnica del crimine, ma la pietas, il dolore. Perciò l’irrompere di Gomorra sulla scena letteraria pone anche una serie di domande, che purtroppo non possono essere eluse. E i problemi che Gomorra pone sono gli stessi di Ossa nel deserto. La domanda principale che bisogna porsi è: come mai il Male «carica» il linguaggio e la suspense, creando un effetto estetico di suggestione? È possibile o non è possibile accusare un testo che racconta «la guerra» di rifarla in qualche modo, cioè di esserne consustanziale? Dico questo anche perché recentemente, intervistando Roberto Saviano per il Taccuino italiano, è stato lui stesso a confessare di avere paura (paura di non essere poi troppo diverso da loro, dai camorristi). Saviano è cosciente di essere entrato volontaristicamente in una materia che non gli appartiene fino in fondo (perché i camorristi non leggono e non scrivono), e di esserne rimasto in qualche modo impigliato. Il rischio, com’è ovvio, è l’estetizzazione del male.
La difficoltà è distinguere in un libro ciò che è «esterno» da ciò che è «interno»: la cronaca, i fatti, l’azione, dai grandi sentimenti, dalla profondità. E poi distinguere il confine tra verità e finzione (Gomorra pone questo problema). Il punto di vista di Gomorra non è né il punto di vista della camorra né il punto di vista della morale o della civiltà del diritto (Giorgio Bocca); è, probabilmente, il punto di vista di una suggestione; o, se vogliamo, di un dolore talmente forte (il dolore per il cancro di Napoli) da non poter essere gestito in assenza di distanza. Che poi il libro lasci a bocca aperta, questo è vero, perché del cancro napoletano ci racconta tutto: dai personaggi alla quotidianità, dai crimini all’economia, dal paesaggio al clima stravolto in cui si è costretti a vivere. Pure, Gomorra è libro di sconfinamenti, nel senso che i documenti e la realtà criminale diventano narrazione romanzesca, con in più un coinvolgimento dell’io protagonista, ai limiti della spericolatezza volontaristica (a volte compiaciuta, magari involontariamente). Gomorra e Ossa nel deserto, perciò, sono due libri che a leggerli insieme pongono tutta una serie di domande sulla letteratura che si alimenta di un esterno criminoso, miserabile nella vita di tutti i giorni, ma efficace nell’elaborazione di una suspense e di un romanzesco fascinoso. Pone, cioè, domande difficili sull’onestà.
Altro discorso è il problema di Napoli. Finzione o non finzione, è indubbio che la classe dirigente politica italiana non sa affrontare la «questione napoletana». Articoli, saggi, studi, romanzi, inchieste, non sono serviti per spronare la classe politica italiana a elaborare una «legislazione speciale». Napoli non è più controllata dallo Stato, l’illegalità sovrasta la legalità, l’inciviltà ha divorato la civiltà. Chi si appella alla «parte buona» dei napoletani (maggioranza, secondo loro), non fa che rimandare il problema. Gomorra, da questo punto di vista, dovrebbe porre il problema di Napoli a livello legislativo. Invece non se ne discute, o se ne discute poco – che non se ne discuta a Napoli pare ovvio, ma l’accettazione di un territorio estralegale «a Roma», ecco, questo è assurdo. Dalla «città dei crolli» di Sergio De Santis alle inchieste di Braucci, dai romanzi di Cacciapuoti alle invettive di Bocca (pregiudiziali quanto si vuole, ma condivisibili), dalla piccola borghesia di Montesano, divorata dall’immaginario consumistico e televisivo alla sfilza di opere e di studi sulla malavita napoletana, la politica ha avuto segnali e materiali sufficienti per aprire a livello nazionale una «vertenza Napoli». Invece questo non accade. Abbiamo speranza che Gomorra finisca sulla scrivania di Giorgio Napolitano, e che il nuovo Presidente della Repubblica ponga in tempi brevi, con durezza e senza troppi bizantinismi, il problema del «risanamento» di Napoli.
Una cosa però sembra eccezionale. A fronte della Calabria, che è divorata dalla malavita e dal degrado, Napoli riesce a sfornare un numero incredibile di opere saggistiche e letterarie sui propri mali. Andrebbe anche capito questo: come si possa reagire diversamente (con il silenzio calabrese, o con il racconto incessante napoletano) di fronte a mali comuni. La letteratura è anche questo: non rassegnarsi di fronte al Male del mondo, anche quando vi si entra totalmente, magari con il dubbio, per un momento, di averlo blandito, di averlo ammirato, come si ammira da ragazzi il più forte del gruppo.