Bush attaccherà l’Iraq per difendere le attuali gerarchie di potere mondiali in crisi. Una proposta per combatterlo.
Si moltiplicano, col passare dei giorni, le avvisaglie di una imminente ripresa in grande stile della guerra contro l’Iraq. A Washington la voce dei falchi – a cominciare dal vicepresidente Cheney – subissa la sempre più flebile opposizione delle colombe. Va in questa direzione anche l’offensiva americana sull’impunità dei soldati Usa, questa inaudita pretesa di essere formalmente legittimati a commettere crimini contro l’umanità. E la turpe sceneggiata dei servitorelli più zelanti – i Blair e i Berlusconi, subito precipitatisi a sostenere le ragioni del Grande Alleato – non fa, anch’essa, che avvalorare le previsioni più pessimistiche. Bush scalpita, non vede l’ora di rimettersi l’elmetto: per questo richiama all’ordine i vassalli. Questo è il punto, questo è l’aspetto cruciale del momento politico, ed è male che si tenda da più parti a lasciarlo ai margini, quasi che la guerra e il conflitto sociale o istituzionale appartenessero a pianeti diversi. Va bene la lotta di massa sull’articolo 18, che si carica, con la ripresa d’autunno, di motivazioni ancora più urgenti. Il disastro economico, il ritorno dell’inflazione, il sistematico smantellamento della sanità e della scuola pubblica, l’annunciato attacco alle pensioni, giù giù sino alla brutale sortita di Frattini sui contratti del pubblico impiego: tutto questo dice quanto sarà necessario attrezzarsi per uno scontro aspro e di lunga lena, pena la regressione del tenore di vita di massa ai livelli degli anni Cinquanta. E vanno benissimo anche i girotondi sulla giustizia, in difesa di quel che resta dello Stato di diritto e del pluralismo nel sistema mediatico. Sarebbe bene mettersi in testa una volta per tutte che, ove passasse il progetto piduista del governo, qualsiasi eventuale vittoria nel conflitto sociale potrebbe essere legalmente vanificata dall’esecutivo, e che, finché permarrà il conflitto tra i compiti istituzionali e gli interessi privati e malavitosi di chi ci governa, qualsiasi tentativo di ricostruire un blocco di forze in grado di sovvertire gli attuali equilibri rischia di fare un buco nell’acqua. La riuscita delle manifestazioni di settembre e poi dello sciopero generale è dunque un obiettivo di primaria importanza per la stessa democrazia di questo paese. Purtroppo, però, molto raramente si coglie il nesso che lega questi problemi con la questione della guerra, da oltre dieci anni tornata al centro della scena politica mondiale.
Troppi, anche a sinistra, sembrano dimenticare che la guerra è – oggi più che mai – l’espressione più pura del dominio politico occidentale e il puntello di ultima istanza su cui si regge la struttura liberticida e distruttiva del capitalismo. E così a troppi si direbbe sfuggire che quando la nuova guerra scoppierà – domani, doman l’altro o tra un mese – non ci sarà mobilitazione di massa che tenga, né scandalo per il Cirami o il Pittelli di turno, se l’opposizione nel paese e nelle istituzioni non avrà sin d’ora messo al centro delle proprie rivendicazioni il no più forte e incondizionato alla guerra e la difesa della pace contro la protervia degli Stati Uniti e dei loro più fedeli alleati.
La guerra: ma quale guerra e di chi e per quali obiettivi? Durante l’anno scorso, dopo l’11 settembre e mentre l’Afghanistan veniva sepolto sotto tonnellate di bombe più o meno intelligenti, intorno a questi interrogativi si è sviluppato un grande dibattito che ha visto contrapporsi, a sinistra, chiavi di lettura diverse e talvolta incompatibili tra loro. In questi ultimi mesi – da quando, non contento del milione e mezzo di morti iracheni causati dall’embargo, Bush ha formalizzato l’intenzione di emulare il papà e di spostare il grosso della macchina da guerra statunitense nel Golfo (dal quale, peraltro, gli aerei inglesi e americani non sono mai andati via) – si sono verificati alcuni fatti che gettano luce su quella discussione, consentendo di fare passi avanti nell’analisi e, quindi, nella capacità di previsione e di contrasto. Proviamo a riassumere i termini del dibattito.
Due interpretazioni fondamentali si sono fronteggiate. Alcuni hanno ritenuto di potere ricondurre le guerre susseguitesi in questo decennio tra i Balcani e l’Afghanistan, passando per il Medio Oriente, a due ordini di cause: da un lato, gli interessi geopolitici degli Stati Uniti e dei loro principali alleati (l’esigenza di contrastare le potenze emergenti, di incrementare il controllo sulle risorse energetiche e idriche fondamentali, di acquisire posizioni di dominio sui nuovi mercati asiatici); dall’altro, le pressioni congiuntamente esercitate sulla Casa Bianca dal complesso militare-industriale (oltre 85mila imprese in grado di condizionare gli umori del Congresso e l’esito delle elezioni presidenziali) e dal sistema finanziario americano, sul quale incombe il peso di un deficit astronomico (si parla ormai di 400 miliardi di dollari all’anno, a fronte di un debito pari a 18.800 miliardi di dollari, quasi il doppio del Pnl), finanziabile solo con i flussi di investimento provenienti dall’estero e minacciati da un’eventuale eclissi dell’egemonia militare statunitense. Sulla scorta di tali considerazioni, questi osservatori – non tutti necessariamente di salda fede leninista – hanno continuato a parlare di imperialismo, magari aggiornando questo concetto, qualificando l’attuale strategia americana, e occidentale in genere, come «imperialismo neo-mercantilista» (Petras) o come «imperialismo liberale» (Altvater).
A questa interpretazione è stata contrapposta una lettura del quadro internazionale incentrata sulle trasformazioni prodotte dalla cosiddetta «globalizzazione». Sullo sfondo della teorizzata crisi di sovranità degli Stati nazionali, si è sostenuto che la caduta del Muro di Berlino avrebbe comportato non solo la fine del bipolarismo, ma anche la progressiva costituzione di un nuovo ordine mondiale incentrato su una sorta di direttorio – di «governo unipolare e oligarchico del mondo» – al quale parteciperebbero, mercé un sistema di alleanze «a geometria variabile», non soltanto gli Stati Uniti con i loro tradizionali alleati (Europa, Israele e paesi arabi cosiddetti moderati), ma anche la Cina, la Russia e l’India. La guerra, in questo scenario, non sarebbe più lo strumento per aggiudicarsi risorse o per estendere il raggio della propria influenza politica, né la conseguenza inevitabile di un sistema di riproduzione e di comando incapace di conservarsi senza ricorrere a nuovi conflitti, bensì un fine, in quanto l’instabilità del pianeta sarebbe di per sé la nuova forma del dominio globale. Sullo sfondo di questa rappresentazione si è quindi fatto ricorso – in modo più o meno coerente – alle diverse teorie «imperiali», da quella di Hardt-Negri fino a quella dell’attuale presidente della Rai Baldassarre. Tutti hanno cominciato a dare per scontato che «ormai» c’è l’Impero e che il presidente degli Usa è l’Imperatore, salvo dovere anch’egli render conto a Sua Maestà il Capitale, ormai talmente potente da essere – come ogni dio che si rispetti – al tempo stesso senza luogo e onnipresente.
Dicevamo che gli eventi delle ultime settimane consentono di misurare con cognizione di causa il grado di plausibilità di queste due ipotesi. Un dato, in particolare, si impone, riconosciuto, una volta tanto, da tutti gli osservatori. Bush è solo. In patria: non più del 51% degli americani lo segue nei suoi proclami guerrafondai (era oltre il 90% all’indomani dell’attacco a Ground Zero). E, soprattutto, fuori. La Cina dice a chiare lettere di considerare illegittimo l’eventuale attacco all’Iraq, e così la Russia, che nel frattempo sigla a tutto spiano accordi di cooperazione militare e industriale con gli Stati canaglia (Iran e Iraq compresi). A loro volta, i paesi arabi – compresi l’Arabia, il Kuwait e il Bahrein – fanno quadrato attorno a Baghdad e persino la fedele Turchia recalcitra di fronte alla prospettiva di dover concedere le basi per gli attacchi aerei. In Europa la Francia e la Germania usano toni a dir poco irriverenti per manifestare il proprio dissenso, inducendo lo stesso Blair a far finta, per qualche giorno, di voler condurre l’amico americano a più miti consigli. Risultato: gli americani cominciano a minacciare di far da soli, a parlare dell’«abisso» che si è aperto tra le due sponde dell’Atlantico, e ad annunciare, tra lo sgomento di Giuliano Amato e del Corriere della Sera, la «morte dell’Occidente».
Ora, non si tratta di inseguire sogni di nuovi «campi» anti-imperialisti, ma certo di un fatto non si può non prendere atto. Il mondo assiste alla rotta di collisione percorsa da grandi blocchi di potenze, contrapposti per fondamentali interessi economici (risorse, mercati, capitali) e politici (alleanze, territori, culture). La Cina è già da un decennio avviata sulla strada della concorrenza economica con gli Usa; l’euro sostituisce il dollaro nelle casseforti dell’Opec; la Russia rinsalda i propri legami in Medio Oriente; il mondo islamico trova nell’aggressività occidentale un insperato collante. Lasciamo a chi si diverte a inseguire le mode – agli «uomini nuovi» che vivono in un eterno presente, per dirla con Eric Hobsbawm – le fantasie di nuovi Imperi. Ben altro è il problema. La guerra ci sarà, perché troppi processi in atto minano alle fondamenta le gerarchie di potere ancora esistenti. Questo è il punto e perderlo di vista sarebbe fatale in primo luogo per quanti stanno cercando di risalire la china della sconfitta storica subita dal movimento operaio nel corso dell’ultimo quarto di secolo.
Allora che fare? Vorremmo partire da una proposta concreta e immediatamente praticabile. Ci attende – lo ricordavamo in apertura – una importante stagione di lotte sociali e politiche. Il 14 settembre dei girotondi, la manifestazione nazionale promossa da Rifondazione per il 28, poi lo sciopero generale indetto dalla Cgil, quindi la primavera dei referendum: perché non pensare anche alla convocazione di un Forum per la pace, che comprenda tutti i soggetti – movimenti, associazioni, partiti, gruppi e singoli – che pongono in cima alle proprie priorità il rifiuto della guerra e l’attiva promozione di una politica di pace? Questa potrebbe essere, secondo noi, una risposta efficace ai venti di guerra che si addensano sulle nostre teste. Una iniziativa capace di costringere le forze della politica a schierarsi senza tentennamenti su una materia che non tollera tatticismi. E un complemento indispensabile alle iniziative di lotta contro il governo Berlusconi già inscritte nel calendario di questo autunno.