Se, come dice Debord, “nella società dello spettacolo il vero è un momento del falso”, l’immagine di Che Guevara ha costituito e costituisce un’anomalia che ritorna con rinnovata forza nelle drammatiche foto che hanno fatto il giro del mondo in questi giorni. Mi riferisco a una fotografia in particolare. Quella di lui accovacciato. Che aspetta di morire. Con orgoglio. Con potenza. Con umiltà. Con senso. Quel Che che non guarda l’obiettivo, che è altrove (altrove rispetto all’immagine, alla finzione, allo spettacolo), che incarna senza possibilità di ridursi od elevarsi ad icona lo spirito della rivoluzione ha un effetto ancora oggi dirompente. Proprio quando il suo volto trionfante, metabolizzato dall’industria del consumo, appare ormai sugli Swatch, sulle magliette, sugli adesivi, nel calderone indifferenziato attuale che omologa Britney Spears a Gesù Cristo o Eminem a Ghandi, il Che uomo sovverte (da morto, dopo tanti anni) il processo che ne stava dissolvendo l’irriducibilità, l’unicità. Non è un simbolo, Che Guevara. E’ la storia della rivoluzione che nel suo testimone, in quel testimone si ripropone, come storia e come testimonianza di una sfida che è poi quanto caratterizza la sinistra, quello stare fino all’ultimo dalla parte dei più deboli, anche di fronte alla morte, anche davanti alla volgarità di un obiettivo che tutto è tranne che obiettivo, e che riduce il tempo a cinematografia di second’ordine e che insomma demolisce, ancora, la storia. La nostra storia, la nostra identità. Che Guevara ritorna da vivo proprio di fronte alla morte. Alla sua morte. A quel fatto privato e universale che tutti ci accomuna. Senza nessuna retorica. Come necessità di una coerenza che emerge nei decenni ed è irriducibile. Parlavamo di Swatch e di magliette. Negli anni Cinquanta dello scorso secolo Andy Wahrol teorizzava la serialità dell’immagine come principio di omogeinizzazione festosa, quanto mortale, della vita rappresentata. Tutto infinitamente ripetuto. Tutto saputo e risaputo. Tutto smerciabile. Tutto uniforme al feticcio merceologico nelle sue svariate, infinite forme che ci agiscono e ci vivono. Che Guevara non rientra in questo mondo. E’ tutta un’altra storia, la sua storia. E’ la storia. La storia che da lui può e deve ripartire. Oggi. La storia di una volontà di cambiare il mondo che non è enfasi, non è politica, non è retorica ma istanza umana irrinunciabile. Per chi non voglia rinunciarci. Per chi ancora sappia guardare il volto e il corpo di quell’uomo e riconoscerne l’essenza. Quella di un uomo che ha voluto essere uomo fino in fondo. E che nel suo paradosso ha trovato un’altra immortalità, non sancita da nessuna chiesa, non vivificata da nessun mercato: l’immortalità della lotta di classe, la sua realtà, la sua umanità, la sua possibilità.