Guantanamo, prima condanna di un «nemico combattente»

Sette anni di prigione da trascorrere nel suo paese, l’Australia, con il dubbio ancora non chiarito se siano da aggiungere ai cinque anni già trascorsi a Guantanamo o se invece ne siano parte: si è conclusa così l’avventura di David Hicks, la prima persona che viene condannata in quanto «combattente nemico», con i taliban. Lui lunedì scorso si era dichiarato colpevole, ammettendo di essere stato addestrato dai taliban e di avere combattuto contro le truppe americane che avevano invaso l’Afghanistan due mesi dopo l’attacco alle Torri gemelle del settembre 2001. La sua esperienza di combattente, aveva aggiunto, era durata solo due ore, giusto il tempo di rendersi conto che non faceva per lui e di vendere la propria arma per mettere insieme i soldi per affittare un’automobile e tentare la fuga verso il Pakistan. Fu durante quella fuga che finì nelle mani degli americani, non si sa se catturato da loro o se a loro «venduto» – come è accaduto alla gran parte dei detenuti di Guantanamo, secondo la stessa ammissione del Pentagono – magari dallo stesso autista del taxi o dai suoi ex compagni che volevano punire il suo tradimento. Conclusione: non aveva ammazzato nessuno e naturalmente non aveva avuto nessun sentore dell’attacco alle Torri che si stava preparando. Hicks aveva anche parlato degli abusi subiti durante la sua permanenza a Guantanamo, ma senza insistere troppo, data la possibilità di raggiungere un accordo.
Che il suo riconoscimento di colpa fosse basato su un accordo era infatti apparso subito evidente ed era stato confermato perfino dal padre di Hicks. Ciò che non si conosceva erano i termini, cioè su quanti anni di prigione si fossero accordati. L’unico elemento a disposizione erano le parole del rappresentante dell’accusa, il colonnello dell’aviazione militare americana Moe Davis, che aveva promesso di presentare una richiesta di condanna «sostanzialmente inferiore» ai venti anni previsti. Prima che il tribunale potesse pronunciarsi occorrevano però alcuni «adempimenti». Primo, che Hicks spiegasse per filo e per segno in cosa era consistita la sua attività di talibano; secondo, che la sua deposizione fosse capace di convincere il giudice, il colonello dei marines Ralph Kohlmann, della sua effettiva colpevolezza; terzo, che il giudice stesso lo dichiarasse colpevole, demandando poi a cinque membri del collegio giudicante la decisione sull’entità della pena.
Tutto questo si è puntualmente verificato, con l’accusatore Davis che cercava di bilanciare le sue parole. Da una parte, infatti, doveva sostenere che Hicks in fondo non aveva fatto un gran che e quindi meritava una pena più mite, mentre dall’altra doveva convincere il giudice che era davvero colpevole. Così, eccolo spiegare che «non sono qui a dirvi che David Hicks era una specie di Osama bin Laden», per poi aggiungere che tuttavia «sono proprio i terroristi di basso livello, lontani dai grandi strateghi, i più arrabbiati».
E mentre lui parlava Hicks annuiva nel suo nuovo vestito, con tanto di camicia bianca e cravatta, che i suoi avvocati gli avevano procurato in fretta e furia perché il suo arrivo in tribunale nella divisa da detenuto – aveva ammonito il giudice Kohlmann – poteva «compromettere la presunzione di innocenza agli occhi del collegio giudicante». Convinto da quell’argomento, Hicks aveva pensato bene di aggiungere il tocco di sbarazzarsi della sua lunga capigliatura.
L’accordo che ha costituito la fine della sua avventura ha anche segnato l’esordio dei tribunali militari creati da George Bush dopo che la loro prima versione era stata clamorosamente bocciata dalla Corte Suprema con il famoso «la guerra al terrore non è un assegno in bianco nelle mani del governo» con cui il giudice Sandra Day O’Connors ha dato il suo addio al massimo organo della magistratura americana. L’idea è di mostrare che in fondo questi tribunali funzionano e sanno essere perfino «comprensivi». Ma intanto, dei quasi 400 detenuti ancora a Guantanamo solo una decina è stata formalmente accusata di qualcosa.