Guantanamo non chiude, si allarga

La Halliburton costruirà la nuova ala del carcere. Bush in calo nei sondaggi

LA DISFATTA IN IRAQ si misura anche dai sondaggi. La popolarità del presidente George W. Bush è precipita-
ta a un nuovo minimo storico: appena il 37,8% degli americani interpellati per conto della Npresprime un giudizio favorevole sulla sua amministrazione. Due i principali motivi d’insoddisfazione: un’economia che continua a macinare disoccupati e una maledetta guerra che non finisce mai. Si tratta di un ulteriore passo indietro rispetto all’ultimo sondaggio dell’Associated Press che dava al presidente un indice di gradimento del 43 per cento. Gli analisti fanno notare che un calo di popolarità è storicamente normale all’inizio del secondo mandato, ma non c’è paragone rispetto al 60% di Clinton o al 59% di Reagan nello stesso periodo.
L’analisi dei dati indica non solo che la maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che sia stato un errore invadere l’Iraq, ma anche la diffusa convinzione che il presidente non mantenga le promesse. E talvolta menta spudoratamente. Come quando sosteneva che Saddam Hussein minacciava l’America con l’atomica, o come quando – sotto pressione della Croce Rossa e di tutta la comunità internazionale – promette la chiusura di Guantanamo. Le ultime notizie dal Pentagono parlano invece di un appalto da 30 milioni di dollari appena aggiudicato alla Halliburton, la società di cui era a capo il vice presidente Dick Cheney, per «lavori d’ammodernamento ed espansione» del famigerato campo di detenzione, appena commissionati dal Naval Facilities Engineering Command di Norfolk in Virginia, il braccio logistico della marina Usa. E si tratta solo di un acconto, perché una volta costruito «Camp 6» questo il nome del nuovo braccio, ne sarà data in appalto la gestione alla Halliburton sino al 2010, un affare da circa 500 milioni di dollari. Cheney ha fatto sapere che la politica americana in Iraq non cambierà per i sondaggi.
Il presidente – che è solito vantarsi di non guardare i sondaggi e di non leggere i giornali – ieri s’è speso il discorso radiofonico del sabato per cercare di parare il colpo: «Abbiamo due sfide innanzi: far crescere l’economia e proteggerci da coloro che vogliono farci del male. Siamo andati in guerra perché siamo stati attaccati». Ha accusato i democratici di fargli ostruzionismo al Congresso. Ma la retorica fa sempre meno presa, come anche tra i repubblicani moderati in molti si sono accorti. «Dopo 1.700 morti, più di 12mila feriti e oltre 200 miliardi di dollari spesi, forse è arrivato il momento di ridiscutere il mandato affidato al presidente», ha dichiarato Walter Jones, deputato conservatore del Nord Carolina, uno che era stato in prima linea al Congresso per dare a Bush i poteri di guerra.
Solo il 32% degli americani degli americani approva la politica economica di Bush; di questi il 60% considera sbagliata la politica della Casa Bianca in Iraq. Ai vertici del Partito repubblicano i numeri hanno suscitato un’ansia da contraccolpo: l’eredità di Bush rischia di essere una pietra al collo. Larry Sabato, docente di scienze politiche all’università della Virginia, spiega: «Il presidente farebbe bene a guardare con attenzione questi sondaggi, e a valutare bene il da farsi in Iraq. Adesso ha ancora un piccolo margine di manovra per sganciarsi da questa situazione e portare avanti la sua agenda politica. Ma se le cose continueranno in questo modo all’orizzonte c’è un pantano come quello del Vietnam».
Se Bush va male – secondo l’ultimo sondaggio pubblicato dal New York Times -ancora peggio ne escono deputati e senatori, cui in generale va l’approvazione di appena il 33% degli americani.