I manifesti mostravano un uomo nudo, incappucciato e in manette appeso per i polsi. L’immagine ha urtato gli austeri membri della Mpaa, la potentissima organizzazione americana dei produttori cinematografici che approva i materiali pubblicitari delle pellicole. Così negli Stati Uniti nei poster del film The road to Guantanamo si vede solo un particolare della foto originale: le braccia incatenate di un prigioniero. Rimane la scritta US Army e la domanda: «Fin dove ci spingeremo in nome della sicurezza?».
Ironia della sorte, nel 2003 il Pentagono ha stabilito che appendere i “nemici combattenti” è in linea con le convenzioni internazionali e la legge statunitense. E infatti «The road to Guantanamo non racconta gli abusi del sistema ma come il sistema lavora» sottolinea il regista Michael Winterbottom. La pellicola è stata premiata a Berlino con l’Orso d’argento negli stessi giorni in cui l’Onu ha chiesto la chiusura del centro di detenzione con un rapporto durissimo che condannava la violazione dei trattati internazionale contro la tortura.
In marzo il film è stato trasmesso dalla rete inglese Channel Four e distribuito contemporaneamente in dvd e su Internet. Oggi arriva nelle sale americane (in Italia sarà distribuito da Fandango) ed è stato presentato in anteprima mercoledì al Walter Reade Theater di New York per il festival Human rights watch.
The Road To Guantanamo intreccia interviste, materiali televisivi e scene ricreate per raccontare la storia vera di Shafiq Rasul, Asif Iqbal e Ruhal Ahmed, i cittadini inglesi di origini pakistane, noti come i “tre di Tipton”, rinchiusi a Guantanamo per oltre due anni. Tutto comincia poco dopo l’11 settembre 2001 quando Asif Iqbal invita gli amici Ruhal, Shafiq e Monir Ali a seguirlo in Pakistan per il suo matrimonio. In una moschea di Karachi l’imam incita i musulmani a portare aiuto umanitario ai fratelli afghani minacciati dalle bombe americane. Il gruppo raccoglie l’appello ma quando attraversa il confine il paese è nel caos. I bombardamenti sono appena cominciati. Monir scompare mentre gli altri tre sono catturati dalle truppe dell’Alleanza del Nord e passati agli americani. Scambiati per agenti di Al Qaeda, vengono spediti nella base cubana. Nel marzo 2004, in seguito all’intervento dell’intelligence inglese, Shafiq, Asif e Ruhal sono stati rilasciati. Winterbottom non è nuovo alle operazioni di cinema verità: nel 2002, nel controverso Cose di questo mondo, premiato con l’Orso d’oro a Berlino, aveva messo in scena l’odissea di due giovanissimi immigrati clandestini in viaggio dall’Afghanistan alla Gran Bretagna.
Giorni fa, dopo il suicidio di tre detenuti a Guantanamo, il Pentagono ha vietato l’ingresso alla base a tre giornalisti tra cui Carol Williams del Los Angeles Times e l’inglese David Rose di The Observer. Forse a qualche critico non piacerà l’uso disinvolto con cui Winterbottom e Withecross hanno mescolato materiali giornalistici veri e falsi, voce fuori campo e recitazione, format televisivo e cinematografico, ma la forza del film è innegabile. Del resto, se paragonate alle mistificazioni dei public relations dell’amministrazione Bush che hanno parlato dei suicidi come un abile gesto propagandistico studiato a tavolino da “nemici combattenti”, i (pochi) cedimenti alla drammatizzazione di Winterbottom sono assolutamente perdonabili.
Le ricostruzioni del trattamento degradante dei 500 detenuti nella base sono basate su rapporti delle Nazioni Unite, informazioni diffuse da avvocati ed ex prigionieri, documenti ufficiali americani declassificati e ricerche di Ong. I prigionieri sono sottoposti a tecniche di privazione sensoriale e violenze fisiche, psicologiche e culturali. Sono segregati in celle minuscole, privati di qualunque contatto con l’esterno, picchiati, costretti a mantenere per ore posizioni stressanti e bombardati con luci stroboscopiche e musica sparata a volume altissimo.
«Guantanamo è stata creata a Cuba soprattutto per aggirare le leggi. In America sarebbe illegale detenere i prigionieri in quel modo. Così quel posto è diventato un buco nero dove non è possibile far ricorso al diritto. Il motto ai cancelli della prigione è “Honor bound to defend freedom” (“L’onore obbliga a difendere la libertà”). Ma come è possibile difendere la libertà rinchiudendo la persone senza giustizia?» ha ripetuto Winterbottom davanti al pubblico dell’Human Rights Watch Festival. Il regista ha ricordato che un mese fa i giudici americani hanno accordato ai tre di Tipton il diritto di portare in tribunale il Dipartimento della difesa e i comandanti militari di Guantanamo per violazione del diritto di praticare la loro fede religiosa.
«Negli Stati Uniti – ha commentato Winterbottom – avrebbe più successo una causa in cui Eminem citasse il governo per violazione del copyright visto che la sua musica è usata come mezzo di pressione sui prigionieri senza il suo permesso». Il presidente Bush ha detto che vorrebbe chiudere Guantanamo e aspetta la decisione della Corte Suprema riguardo la legittimità dei tribunali militari creati ad hoc dalla sua amministrazione per giudicare i presunti terroristi.
Secondo il Washington Post a Guantanamo gli standard per il trattamento dei prigionieri sono i più alti. «I 500 prigionieri tenuti dagli Stati Uniti nella prigione afghana di Bagram vivono in condizioni di gran lunga peggiori e hanno meno diritti». E i detenuti di Bagram, aggiunge il quotidiano, stanno meglio di quelli tenuti nelle prigioni segrete della Cia che «sono scomparse, come le vittime delle dittature del Terzo Mondo».
Dei nuovi desaparecidos si occuperà uno dei prossimi film di Winterbottom. Sarà tratto da Murder in Samarkand, libro di memorie firmato da Craig Murray, ex ambasciatore del Regno Unito in Uzbekistan che ha denunciato la violazione dei diritti umani e la carcerazione arbitraria di presunti terroristi nel paese dell’Asia centrale alleato di Bush.