«Guantanamo, la violenza contro l’Islam»

«A Guantanamo l’islam è la religione dei terroristi che hanno sferrato l’attacco all’America l’11 settembre. E’ una guerra dichiarata contro tutti gli individui lì ingabbiati e trattati senza speranza nella dignità di ogni uomo. E’ questa la conclusione che traggo dalla mia esperienza di cappellano musulmano a Camp Delta. Costoro mi consideravano un cinese talebano». James Youssef Yee (foto ap a destra), cappellano dell’esercito americano a Guantanamo, inizia con questo j’accuse contro il governo americano l’intervista esclusiva al manifesto da Olympia, nello stato di Washington. Il cappellano musulmano di origine cinese, autore di For God and country pubblicato in questi giorni, al termine del suo incarico a Camp Delta è stato processato e imprigionato in cella di massima sicurezza per 76 giorni nel carcere militare di Charleston con accuse diffamatorie di spionaggio per i terroristi. Le accuse si sono verificate tutte false durante il processo magistralmente condotto dall’avvocato Eugene Fidell, presidente dell’organizzazione «Lawers for military crimes guild».

Quanto tempo è durato il suo incarico di cappellano musulmano a Guantanamo?

A Camp Delta, la mia esperienza di conforto per i detenuti si è protratta dal novembre 2002 al settembre 2003.

Per l’amministratore Bush i detenuti a Guantanamo non sono soggetti a tortura, né trattamento crudele ed inumano. Da agosto scorso oltre 200 per protesta alle condizioni di detenzione continuano lo sciopero della fame e sono sottoposti a nutrimento forzato. Qual è la sua esperienza?

Già quando ero a Guantanamo ho assistito a ripetuti tentati suicidi collettivi, causati dalla continua tensione provocata dalla violenza bruta fisica e mentale esercitata nei loro confronti dalle guardie militari. Se la protesta ora è giunta al rifiuto collettivo del cibo, ciò indica che le condizioni sono ulteriormente peggiorate.

Ci descriva la sua esperienza.

Poche settimane dopo il mio arrivo a Guantanamo mi resi conto che perquisizioni delle celle e perquisizioni invasive delle parti più intime del detenuto, denudato, erano all’ordine del giorno creando tensione e violenza. Era una violenza fisica fine a se stessa contro individui che uscivano dalle loro gabbie soltanto incatenati mani e piedi per essere portati nelle camere della tortura degli interrogatori.

Ci racconti un esempio.

Un detenuto si era rifiutato di obbedire all’ordine di uscire dalla cella per quello che in gergo viene chiamato «la ricreazione», dopo che la guardia aveva effettuato la perquisizione chiamata «credit card swipe»: il detenuto venne obbligato a sottoporsi alla perquisizione di tutte le cavità, alla ricerca di armi nascoste. Palpeggiava i genitali e poi inserì le dita nell’ano. Questo tipo di contatto fisico non è accettabile per gli islamici. Il detenuto ha reagito cercando di allontanare la guardia. La punizione fu immediata.

Cioè?

Un team di otto guardie della «Initial Response Action» apparvero con l’uniforme adeguata per le insurrezioni in prigione. Ho visto con orrore queste guardie protette da elmetti, scudi di plastica a schermo facciale, ginocchiere e scudi pettorali fare irruzione nella cella. Pestarono con tutta la loro violenza bruta il detenuto usando pugni, gli scudi in dotazione, pestandolo con gli scarponi per immobilizzarlo a terra. Dopo averlo legato mani e piedi lo trascinarono lungo il corridoio, mentre sanguinava, sino alla cella di massimo isolamento. Le guardie, dopo, mostravano quasi un senso di eccitamento e di orgoglio. Si davano pacche sulle spalle come i giocatori di una gara di basket per la vittoria riportata contro un sol uomo, inerme. I detenuti che reagivano scuotendo le porte delle loro gabbie subivano lo stesso trattamento. Ho visto molti detenuti che dopo questo trattamento venivano portati sanguinanti e in stato comatoso all’ospedale.

Medici e psichiatri militari dell’ospedale accusati di essere complici della tortura in un rapporto reso pubblico pochi mesi fa hanno difeso l’assistenza medica prestata come «eccezionale». E’ quanto le risulta, durante il suo incarico a Guantanamo?

L’ospedale di Camp Delta, a Guantanamo è la tappa prescelta dai comandi militari per i tour d’ispezione concessi ai «vip» e ai media. Però una volta superato l’ufficio delle Relazioni pubbliche, di pulizia immacolata, con aria condizionata e macchinari per le strutture di radiologia, il quadro è tutt’altro – ma i visitatori non sono ammessi.

Ci racconti la sua visita all’ospedale.

In un padiglione notai due detenuti in preda a una seria depressione provocata dalla lunga detenzione. Stavano con gli occhi sbarrati. Un afghano di poco più di vent’anni, Haji: rifiutava di comunicare con chiunque ed era in stato comatoso. Abdul Rahman, palestinese, rifiutava il cibo. Era una larva umana. I medici insistevano con l’alimentazione forzata a tenerlo in vita. Rivolti a me chiesero: «Cappellano, perché sono qui? Ho detto loro tutto. Ma continuano a ripetermi le stesse domande. Cos’altro vogliono?». In mia presenza, a quel punto è intervenuta un’infermiera. Immobilizzate le braccia, inserì della vaselina nel naso del detenuto e poi il tubo nelle narici per la nutrizione. Le urla di dolore potevano essere udite in tutto l’ospedale e vomitava sangue. Malgrado le loro condizioni, Haji e Rahman venivano trattati come terroristi pronti a colpire alla prima l’opportunità.

Nel suo libro lei descrive questa impostazione generalizzata a Guantanamo contro l’Islam e i musulmani. Partiva dai comandi superiori?

Il generale Jeffrey Miller, che gestiva Guantanamo (venne promosso ad Abu Ghraib nell’aprile 2003), ha impostato l’impiego delle tecniche di tortura per i detenuti di Guantanamo. Quando si rivolgeva ai soldati, a Camp Delta, diceva loro: «La battaglia è in atto». Un modo sottile per far intendere che ogni norma e limite per il trattamento di violenza fisica e mentale esercitata nei confronti dei detenuti era lecita. Le infrazioni così erano spesso condonate ai soldati. Tutti convinti che si stava conducendo una battaglia contro il gruppo di al Qaeda responsabile dell’11 settembre.

Ha assistito agli interrogatori?

Non avevo accesso all’operazione degli interrogatori per estrarre informazioni. Venivano effettuate da agenti congiunti dei servizi segreti della Cia, della Fbi, Dea. Erano tutti in borghese. Purtroppo non avevo alcuna influenza su quanto avveniva nelle camere della tortura. Le interrogazioni erano in gergo chiamate «reservations». Molti detenuti al ritorno in cella mi raccontavano. Ho raccolto le loro testimonianze.

Quali le rimostranze più gravi dei detenuti?

La denigrazione della religione islamica, del Corano con le urla ripetute: «Satana è il tuo Dio. Non Allah!». Musica rock sovraimposta ai versi del Corano. Le profferte di prostitute e prestazioni sessuali durante gli interrogatori, ostentatamente condotte da militari donne.