Dalla recessione all’intervento militare in Afghanistan e in Iraq c’è un filo rosso che unisce politica economica interna e politica estera degli Usa. La guerra diventa così lo strumento per uscire dalla crisi economica e per affermare l’egemonia mondiale di Washington. E’ questa la tesi che attraversa i tre saggi che compongono il volume
Piers Brendon (Gli Anni Trenta, Carocci, € 18,60), storico a Cambridge e responsabile dei Churchill Archives, interpreta come conseguenza diretta della crisi del `29 i principali avvenimenti del decennio che si concluse con la seconda guerra mondiale, e mostra cosa avvenne quando le difficoltà materiali della crisi capitalistica si combinarono con il «fanatismo ideologico di leader disposti a tutto». Se usassimo lo stesso criterio oggi, dovremmo considerare gli avvenimenti recenti come la conseguenza diretta della crisi economica Usa del 2000-01, la più grave dopo il `29, che torna a combinarsi con nuovi fanatismi ideologici di leader – così sembra – disposti a tutto. Quali siano queste leggi del capitalismo che spingono alla guerra, e perché si combinino con questi leader, è appunto l’argomento del libro di Piers Brendon. In un paio di capitoli si ricostruisce la trama della micidiale politica economica che permise alla Germania nazista di superare per prima la grande depressione seguita al `29. Nel 1934 il ministro delle Finanze Schacht diede impulso al rilancio dell’economia finanziando il riarmo con le cambiali «Mefo», note di credito accettate dalle banche e dai fornitori del governo, che garantivano un interesse del 4% ed erano rimborsabili nel 1939. Ma nel 1938 Hitler diede il via alla seconda guerra mondiale evitando i rimborsi che avrebbero fatto crollare l’economia tedesca. La guerra di rapina avrebbe pareggiato i conti.
Dalla vicenda esposta da Brendon emergono due temi da riconsiderare.
Il nesso tra debito e guerra, perché la guerra ancora oggi costituisce un mezzo per rimandare il pagamento del debito che gli Usa non hanno intenzione di pagare. E, soprattutto, il nesso tra militarismo e ripresa economica. L’economia della Germania nazista infatti si era ripresa col riarmo, cioè prima che la guerra di rapina assicurasse le risorse, i mercati e i campi di investimento.
Lo stimolo militare
Dopo sessant’anni questo uso della leva militare è ormai pratica costante delle amministrazioni Usa. Non più semplicemente a sostegno delle dinamiche economiche dell’espansione imperialistica, ma in sostituzione di esse: è questo il tema rilevante del saggio «L’economia della guerra infinita» di Vladimiro Giacché, nel volume collettivo Escalation (DeriveApprodi, pp. 288, € 13,50), che contiene anche i contributi di Manlio Dinucci e Alberto Burgio.
Il saggio di Giacché può essere accostato al libro di Brendon perché anche in questo testo si interpreta la guerra come conseguenza diretta di una grave crisi economica, quella manifestatasi negli Stati uniti con lo scoppio della bolla speculativa del marzo 2000 e con la recessione iniziata nel marzo 2001, dunque ben prima dell’11 settembre. La guerra – si sostiene – è stata usata consapevolmente come la «continuazione dell’economia con altri mezzi». Clamoroso a questo proposito il report caricato sul sito di Morgan Stanley alle 8 dell’11 settembre dall’ufficio delle Twin Towers: «Solo un atto di guerra può salvare l’economia degli Stati uniti e il dollaro». Appena un’ora prima che «l’atto di guerra» si verificasse realmente.
Giacché ritiene che si stia compiendo una «delicata transizione» verso un sempre più esplicito uso economico del militarismo. Superando dunque le diffuse interpretazioni della guerra o solo politica o solo come «guerra di rapina», l’autore recupera la complessità dell’analisi elaborata nei momenti alti dal movimento operaio. La «formula» della sopravvivenza del capitalismo individuava due momenti: 1) il riarmo continuo, giustificato da apocalittiche minacce di nemici esterni, per attutire la tendenza permanente alla crisi economica col sostegno al settore privato mediante la spesa pubblica militare e 2) con le armi così prodotte, la guerra di rapina e il dominio su risorse, mercati, campi d’investimento.
Ogni semplificazione di questa micidiale sinergia ha sempre prodotto fraintendimenti. La guerra dunque non solo per aprire mercati, per il controllo delle materie prime, per l’egemonia del dollaro, per imporre il non pagamento del proprio deficit, ma anche e ormai soprattutto come strumento per rimettere in moto l’economia: l’escalation militare Usa ha questa impronta inconfondibile di «stimolo della congiuntura». «La guerra fa bene al Pil», ha titolato «il Sole 24 Ore» (20 febbraio 2002).
Il saggio contiene un’accurata documentazione della stretta relazione tra interventi militari e ripresa dell’economia Usa a partire dalla seconda guerra mondiale. Ai dati forniti da Giuseppe Guarino (I soldi della guerra) e da Mario Pianta su questo giornale, che ha annunciato l’edizione italiana di War Inc di Seymour Melman, si aggiungono ora i dati di questo volume: 750 miliardi di dollari calcolando tutte le voci della spesa militare Usa. Più i recentissimi 82 miliardi votati all’unanimità dal Congresso. Quindi col moltiplicatore al 2,5 la spesa militare assicurerebbe un quinto del Pil degli Stati uniti. Livelli da guerra fredda: ma l’Unione Sovietica non c’è più e gli Stati uniti stanno ora cercando, provocando, costruendo nuovi nemici per giustificare l’ininterrotto riarmo. E siccome anche Giacché ritiene, con Augusto Graziani, che «i conflitti prolungati esercitano un influsso sull’attività economica di tutti i paesi che, direttamente o indirettamente, vi sono coinvolti», ritiene anche che il prolungamento del conflitto in Iraq vada interpretato «non soltanto come un infortunio, ma come una scelta strategica precisa» delle classi dirigenti Usa. Anzi, hanno già deciso che la «guerra al terrorismo» durerà trent’anni e questo è solo il suo inizio: sostituirà la guerra fredda proprio per assicurare un altrettanto prolungato, provvidenziale «influsso sull’attività economica» statunitense. Si spiegherebbero così il «millenarismo» dei neoconservatori e le dichiarazioni di Ramsfeld: «Non abbiamo un metro per stabilire se stiamo vincendo o perdendo la guerra al terrorismo». E di Bush: «Questa guerra non può essere vinta». Secondo Giacché la «verità» di queste affermazioni sta nello slogan con cui il presidente Usa ha vinto le elezioni: «Difenderò il nostro tenore di vita ad ogni costo».
Nel saggio di apertura dello stesso volume, intitolato «Geopolitica di una `guerra globale’», Manlio Dinucci ripercorre l’escalation militare Usa dopo il biennio 1989-91, rintracciando le strategie espansionistiche degli Stati uniti tanto nei documenti di pianificazione strategica resi pubblici, quanto nella ricostruzione delle guerre Usa e nella crescita delle spese militari, con la documentazione probabilmente più completa disponibile in Italia su questo argomento. Così come è puntuale il resoconto di quanto avvenne l’11 settembre, delle incongruenze nel comportamento del governo Usa e nella ricostruzione ufficiale degli eventi.
Nel terzo saggio, «La guerra contro i diritti», Alberto Burgio individua un altro aspetto dell’escalation nella sempre più sfuggente distinzione tra «dentro» e «fuori»: il ripudio del diritto internazionale ha il suo inevitabile doppio nella soppressione dei diritti civili all’interno.
Burgio ravvisa nell’uso della tortura, da Mazar i Sharif a Guantanamo e ad Abu Ghraib, non soltanto lo smascheramento della retorica della «guerra per la democrazia e per i diritti», ma una pratica che gli Usa sperimentano da tempo anche nei propri istituti penitenziari.
Più in generale, in parallelo alla transizione – indicata da Giacché – da «impero informale» attuato mediante il dominio economico, ad «impero formale» fondato sul dominio militare, c’è nel saggio di Burgio la descrizione dei principali mutamenti giuridici che hanno determinato il passaggio da «stato sociale» a «stato penale». Militarismo ed economia di guerra si riflettono quindi, sul piano interno, in regressione costituzionale e accentramento patologico del comando. Insomma un volume che, nelle sue tre parti, affronta la complessità dell’«impero formale».
Ritorno agli albori
E’ da segnalare quanto importante sia l’analisi della funzione economica del militarismo, così spesso trascurata, per interpretare le dinamiche profonde del capitalismo Usa e della politica estera al servizio della sua sopravvivenza. Dopo oltre mezzo secolo di sospensione dello scontro armato tra imperialismi ormai sappiamo che i profitti esterni, indispensabili per superare le crisi economiche, non vengono soltanto dalle guerre di rapina – non è rimasto molto – ma sempre più spesso «artificialmente» dall’indebitamento dello stato verso il settore privato con la spesa pubblica, che col neoliberismo è diventata sempre più militare.
D’altra parte già agli albori del capitalismo le combattive città-stato italiane del Rinascimento riuscirono a trasformare le spese militari in entrate sperimentando la possibilità di commercializzare la guerra. Se i cittadini si tassavano per pagare i mercenari, questi spendendo le paghe incrementavano gli scambi di mercato e quindi gli introiti fiscali che permettevano nuova spesa militare in un sistema che, secondo Giovanni Arrighi, almeno in parte si autoalimentava.
Il militarismo dunque è servito alla sopravvivenza del capitalismo fin dagli inizi e lo accompagnerà «fino alla sua morte beata» in una spirale di crisi economiche, debito – spese militari e guerra – maggior debito. La storia continua a mostrarci le tragedie che si producono in questi casi.