Guantanamo, dietrofront su 38 prigionieri

L’Amministrazione Usa: non sono combattenti nemici, presto liberi. Pena confermata per 520

Il sistema è infallibile? «No, si tratta di una creazione umana e quindi ovviamente non è perfetto» ha dichiarato ieri Gordon England». «Ma – ha proseguito il capo della marina Usa – è preciso e giusto nella misura in cui lo può essere un’amministrazione di detenuti che allo stesso tempo debba proteggere l’America». Saranno liberati, ma forse non riceveranno nemmeno le scuse statunitesi, i 38 prigionieri di Guantanamo per i quali ieri il Pentagono, al termine della revisione dei casi di tutti e 540 i detenuti nella base militare a stelle e strisce nell’isola di Cuba, ha candidamente ammesso: ci eravamo sbagliati, quel gruppo di carcerati non appartiene alla categoria degli enemy combatants, combattenti nemici privati arbitrariamente dal gabinetto di guerra americano delle protezioni garantite dalla terza Convenzione di Ginevra.

Non è stata resa nota né l’identità né la nazionalità di queste vittime della cosiddetta «guerra al terrorismo» scatenata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Tre di loro stanno per essere rispediti a casa mentre altri 35, secondo England, «torneranno il più presto possibile». Le commissioni militari di tre membri – istituite dopo un verdetto della Corte suprema Usa del giugno 2004 che stabilì che i prigionieri potevano appellarsi a corti americane per chiedere la loro liberazione – li hanno scagionati per insufficienza di prove.

Un percorso quello delle corti che ha attirato critiche di giuristi e organizzazioni dei diritti umani di tutto il mondo, perché durante la revisione del processo non sono stati cocessi avvocati difensori e le prove a carico dei detenuti non sono state comunicate ai prigionieri. Gli altri 520 dannati per i quali l’Amministrazione Usa ha confermato lo status di combattente nemico resteranno insomma nelle gabbie (due metri per due metri e mezzo circa) di Camp delta senza sapere quali sono le prove contro di loro.

«Se l’amministrazione Bush permettesse a questi detenuti di partecipare a processi giusti, nel corso dei quali fosse permesso loro di accedere alle prove portate contro di loro e chiamare testimoni in supporto dei loro alibi e delle loro spiegazioni sul perché si trovassero in Pakistan o Afghanistan, possiamo immaginare quanti delle centinaia di detenuti potrebbero essere liberati», ha dichiarato ieri Alistair Hodgett, della sezione americana di Amnesty international.

Il giorno precedente un giudice federale americano, Henry Kennedy, aveva bloccato il trasferimento di 13 yemeniti prigionieri nella base militare di Camp delta verso il loro paese d’origine. Secondo Kennedy c’è il rischio che i prigionieri, una volta arrivati nello Yemen, vengano torturati o tenuti prigionieri arbitrariamente. Il giudice ha motivato la sua decisione lamentando che la qualifica di «combattenti nemici» per i 13 non era ancora stata confermata e per questo motivo ha ordinato comunque al governo Usa di concedere un preavviso di 30 giorni prima dell’eventuale decisione di trasferirli all’estero.

Yemen, Arabia saudita, Giordania, Egitto, Siria sono tra i paesi dove si pratica regolarmente la tortura che l’Amministrazione repubblicana ha scelto come basi dove poter fare ammorbidire per procura i prigionieri, aggirando in questo modo la convenzione delle Nazioni unite contro la tortura. E proprio ieri il New York times ha dato notizia che un 35enne ingegnere canadese, Maher Arar, ha fatto causa al governo statunitense perché sostiene di essere stato rapito da agenti segreti americani nel 2002 e trasportato in Siria, dove fu tenuto prigioniero per dieci mesi e brutalmente picchiato con un bastone di metallo. I percorsi di volo ottenuti dal quotidiano statunitense sembrano confermare le accuse di Arar, che ha raccontato di essere stato trasportato in Siria a bordo di un jet, incatenato mentre gli agenti Usa guardavano un film, indifferenti alle proteste del prigioniero.