Grifi, il sovversivo delle immagini

La prima volta è stato nel 1993, l’occasione il festival Anteprima di Bellaria. Fino a allora non avevo mai incontrato Alberto Grifi e neppure visto i suoi film, mi avevano sempre raccontato come di una leggenda di Vincenzo l’operatore che entra all’improvviso in campo dichiarando il suo amore a Anna, la ragazza protagonista dell’omonimo film che Grifi girò nel 75 insieme a Massimo Sarchielli. Forse era capitato di vedere fotogrammi sparsi di Parco Lambro, la rivolta del proletariato giovanile che filmò vivendo in diretta, e per molti aspetti con intuizioni che già prefiguravano i tempi futuri – la memorabile scena dell’assalto ai polli e l’intervista a «Paperina», la giovanissima ragazza sassofonista – contraddizioni e trasformazioni della sinistra (siamo nel ’76) a venire. Arrivò al manifesto pieno di appunti, storie, energia, la voce profonda che riconoscevi nei suoi film, il gusto dello scherzo, e una faccia bellissima. I materiali che snocciolava infiniti liberavano la memoria e la Storia non raccontata di questo paese, come tali andrebbero salvaguardati, raccolti, catalogati, era la preoccupazione di Grifi acuita in questi ultimi anni di malattia.
È infatti un’impresa difficile e delicata vista la quantità, comunque indispensabile: andrebbero studiati a scuola e nelle facoltà non solo di cinema, lì c’è tutto quello di fondamentale che si è continuato a rimuovere soprattutto nella cultura politica di sinistra. Quel festival, che la passione veltroniana dei «grandi eventi» seppellì insieme a Riminicinema e al noir di Cattolica nel festivalone dell’Adriatico rilanciò dunque Alberto Grifi e il suo cinema che tra gli anni 60 e 70 aveva «documentato» l’intreccio di quotidiano, movimento, rivolta, utopia e lì Grifi incontrò in sinergia alcuni giovani cineasti che stavano cominciando. Erano gli anni in cui abbiamo conosciuto Antonio Rezza, Claudio Dal Punta, Carola Spadoni, Roberto Nanni e molti altri, un cinema italiano «eccentrico», dotato di sensibilità strana e della capacità di inventare rischiando: altri spazi, altri tempi, altre forme associative, altre emozionalità. Chissà se è un caso che lo scorso anno a vincere il festival di Anteprima (da due edizioni dedicato al documentario) è stata Antonella Grieco (Nerik) cresciuta al cinema con Grifi a cui aveva dedicato anche il premio. Ho usato l’«atroce» prima persona ma era l’unico modo per spiegare.
Zavattini , con cui Grifi era molto amico, diceva che avanguardia è una parola così lunga che quando l’hai finita di dire racconta un’esperienza già vecchia. Infatti Grifi, Leo e Perla con cui ha lavorato e tanti altri che il nostro sistema culturale ha bistrattato se non cancellato – vale anche per Carmelo Bene – non sono «avanguardia» statica ma in continuo movimento, e se il nostro cinema come si sono scandalizzati in tanti all’annuncio del concorso di Cannes senza Italia, è così ridotto – un po’ come il nostro sistema culturale – è perché quelle esperienze sono state recise e non assimilate mentre lì viveva il senso politico e ampio dell’immaginario.
Il lavoro di Alberto Grifi è stato sempre declinato al presente, nessuna nostalgia, stessa grinta e lucidità sia all’epoca di Parco Lambro che quando seguì tutta la storia del Leoncavallo – Leoncavallo, i giorni dello sgombero, 94 – riferimento e guida per i nuovi movimenti antagonisti che in lui avevano un «maestro» prezioso nell’apprendistato di un uso consapevole e critico della macchina da presa. Anna era stato il primo film girato in Italia col video ma già nel 64 Grifi comincia a scomporre dall’interno le immagini: La verifica incerta che realizza insieme a Gianfranco Baruchello, una sorta di proto-Blob montato navigando nella storia del cinema hollywoodiano, svela la produzione di senso e l’uso costante della manipolazione. Questo però non significa certo «odio» , anzi La verifica incerta è uno straordinario gesto d’amore verso quella produzione cinematografica proprio nel liberarne quanto le imposizioni del mercato occultano: il potere sovversivo.
Nato nel 1938, Alberto Grifi cresce respirando in casa la tecnica, quell’essere un artigiano tante volte rivendicato nella capacità di rimettere a posto macchine e pellicole anche le più distrutte la prende forse dal padre costruttore di truke e macchine da presa sperimentali. Il readymade del cinema più che un vezzo è una necessità e non soltanto economica ma di costruzione dell’immagine stessa, cercare quel che resta nel fuoricampo dei tagli e dei pezzi di pellicola gettati nel cestino per sprigionare nuovi mondi. La sua è una provocazione politica e poetica, non è per caso se oltre che a Zavattini (La prima volta che Zavattini provò a usare un videotape) dedica un film anche a Rossellini – Addo’ sta Rossellini centrato su Alifonso, protagonista del terzo episodio di Paisà.
Fare cinema è infatti qualcosa di esistenziale, ma non nel senso intimista, al contrario la sfida è catturare la vita, stravolgerne la struttura apparente per smascherare il sistema della finzione, della comunicazione, deformando come in A proposito degli effetti speciali in modo da allenare al massimo la percezione narcotizzata. Nel 1963 è accanto a Carmelo Bene, lavora sullo spettacolo Cristo 63 che il bigottismo dell’Italia di allora (chissà i teodem di oggi…) vieta, i materiali filmati spariscono e restano invisibili. Qualche anno dopo c’è In viaggio con Patrizia, improvvisazione dentro l’universo poetico di Patrizia Vicinelli con le note di Paolo Fresu. Nel 66 lo troviamo insieme a Leo de Berardinis e Perla Peragallo filmare l’Amleto. Da Regina Coeli dove si fa due anni accusato di spaccio – come Pierre Clementi, e come molti altri militanti dell’epoca incastrati con prove false – Grifi fa uscire le lettere dal carcere che vengono lette pubblicamente. Sicuramente paga Transfert per camera verso virulentia dove smonta pezzo per pezzo l’oscurantismo medievale del processo al filosofo Aldo Braibanti.
Cosa conquista un ragazzino di vent’anni nel lavoro di Grifi? Senz’altro il bisogno di conoscere qualcosa che non sa, qualcosa che viene trasmesso in modo vitale, il cinema al lavoro e una rarissima ormai spinta al rischio come divertimento e luogo collettivo di esperienza. Alberto Grifi era instancabile. Anche quando perse casa – diceva che aveva fatto un esorcismo mettendo il contratto in frigo cosa che lo aveva salvato dallo sfratto per anni. Filmava sempre tutto, gioco serissimo, il digitale non era solo accendere, c’era sempre qualcosa, un gesto che aveva una sua urgenza, una necessità.
Come quel suo essere caustico e insieme molto dolce, lucido ma mai rammaricato e meno ancora disposto a arrendersi. Quando neppure un mese fa aveva ricevuto il premio dalla Festa del cinema di Roma era raggiante, faceva progetti sul restauro dei suoi film, su un posto dove raccoglierli tutti insieme… Che stava male da morire non ci potevi credere. E forse è davvero un po’ così.