Grazie, signor Beckett! Il 7 settembre 1973 ho ricevuto una lettera che mi ringraziava della spedizione del mio primo romanzo Harrouda pubblicato per le edizioni Denoël a cura di Maurice Nadeau. Non sono riuscito a decifrare la firma. L´ho messa da parte e l´ho dimenticata.
Abitavo, in quanto studente, alla Cité Universitaire. Mi chiedevo chi mai avesse potuto scrivermi quella lettera quasi illeggibile. Non ricordavo di aver mandato il mio libro a molte persone oltre ad alcuni giornalisti dei quali l´editore mi aveva fornito l´elenco. In generale i critici non scrivono lettere di ringraziamento. O recensiscono il libro oppure lo ignorano.
Quella grafia sottile e inclinata non mi diceva nulla. Strano. Sembravano zampette di mosca, di una mosca disciplinata e intelligente. Una mosca venuta da fuori, ma una mosca molto cortese. Una decina d´anni più tardi, leggendo su Libération un articolo che raccoglieva le risposte di alcuni scrittori alla domanda «perché scrivete?», noto una firma che mi ricorda quella della lettera ricevuta. Stessa scrittura. La risposta era splendida: «so fare solo quello» e a rispondere così era Samuel Beckett.
Così Beckett si era preso la briga di scrivermi e io non lo sapevo. Ho avuto come l´impressione di appartenere al suo teatro, di essere uno di quei suoi personaggi che vivono nell´illusione di una vita che inventa loro storie e ricordi. Come se Godot fosse venuto a trovarmi e io non lo avessi riconosciuto.
E non lo avessi neppure aspettato. Come se fosse entrato in casa mia, avesse lasciato la sua traccia sulla mia scrivania e poi io lo avessi sistemato in un cassetto, anche se con un piccolo dubbio sulla sua identità. Se fosse stato Molloy avrebbe fatto rumore, molto rumore. Non avrei capito le sue frasi.
Forse quella breve missiva è stata scritta da Malone, quello che si confonde con la sua ombra in L´innominabile. Lo sento aprire la prima pagina del romanzo: «Adesso dove? Adesso quando? Chi, adesso? Senza chiedermelo. Dire io. Senza pensarlo. Chiamarle domande, ipotesi. Andare avanti, chiamare quello andare, chiamare quello un avanti. Può darsi che un giorno, dopo il primo passo, io ci sia semplicemente rimasto, dove, anziché uscire, secondo una vecchia abitudine, passare giorno e notte quanto più lontano possibile da me, non era lontano. Può essere cominciato così. Non me lo chiederò più».
Anch´io non me lo chiederò più. Personaggi di Beckett sono entrati a casa mia e fanno il loro circo. Girano in tondo nel mio spazio e io guardo come se fossi a teatro. Poi sento Malone dirmi «le parole sono qui, da qualche parte, e non fanno il minimo rumore… le parole che cadono, non si sa dove, non si sa da dove, gocce di silenzio attraverso il silenzio… ». Poi mi chiedo se Samuel Beckett parla come i suoi personaggi. No, parla poco, molto poco.
I suoi occhi e il suo sguardo la dicono più lunga e sono più eloquenti di un discorso. Non parla quasi. Si accontenta di essere lì, magro, per non dire smilzo, secco, senza un filo di grasso, nulla di troppo, il minimo vitale. E alto di statura. Ancora i suoi piccoli occhi penetranti. Un uccello che non bisogna disturbare, che bisogna rispettare e cioè non bisogna fargli domande.
Ho ritrovato la lettera, l´ho letta e riletta. Semplice, diretta, cortese. La parte più divertente della storia è che un giorno d´inverno ho incontrato Beckett a Tangeri. Camminava sulla sabbia della spiaggia della città, al fianco di sua moglie. Suppongo che fosse sua moglie. Non si chiede questo tipo di precisazione a Beckett. Di lontano somigliavano a una scultura di Giacometti, L´uomo che cammina. Due personaggi, uno dei quali alto e sottile, che camminano sulla spiaggia di Tangeri. Il cielo è cupo.
L´aria piuttosto fresca. La città è lontana, bianca, coperta dalla nebbia, una specie di lenzuolo posato sulle case della Casbah, un velo che aleggia sopra la Grande Montagna. Sembra che Beckett misuri la larghezza della spiaggia. Sarebbe assurdo; però è proprio quel genere di cose di cui sarebbe capace (vedi Le dépeupleur, Éditions de Minuit, 1970 – poi Lo spopolatore, Einaudi, 1972). Gli sono passato accanto e non ho detto nulla. Non ho osato interrompere la loro marcia. Al proposito, riprendo una sua frase tratta dallo Spopolatore: «i corpi si sfiorano con un rumore di foglie secche».
In quel libro si parla di un cilindro «di cinquanta metri di circonferenza e sedici di altezza per l´armonia». Dentro, ci sprofonderanno delle persone. E soffocante, angosciante, è il mondo di Beckett che cerca aria per non morire asfissiato. Mi dico che fa proprio bene ad andare su e giù per la spiaggia di Tangeri a respirare. Porta i suoi personaggi dentro di sé. Abitano il suo corpo, i suoi pensieri.
Qualche giorno dopo, ritrovo Beckett, solo, seduto al tavolo di una sala da tè, «La Espagnola», in rue de La Liberté, giusto di fronte al consolato francese. Beve un tè. E´ seduto in un angolo, tra le mani ha un quotidiano marocchino scritto in francese. Mi avvicino, lo saluto, lui alza la testa e mi dice «buongiorno, come sta?». Stava facendo le parole crociate. Sembrava sereno e a proprio agio. Troppo facili, le parole crociate di quel giornale insignificante. Non mi siedo. Gli chiedo se il suo soggiorno procede bene. Mi dice «l´albergo è un po´ rumoroso». L´albergo in questione è un albergo modesto che dà su un incrocio con due semafori; all´epoca non ospitava solo turisti. Non ho verificato, ma mi hanno detto che i passanti accompagnati potevano prendere una camera per un´ora o due. Tuttavia non è un albergo losco come dicono. E´ una falsa impressione.
Avrei voluto parlare con lui del bilinguismo, della sua bella capacità di passare dall´inglese al francese conservando sempre lo stesso rigore, la stessa forza. Avrei voluto sapere se gli creava dei problemi. Forse mi avrebbe citato Kafka, ceco che scriveva in tedesco, o Ionesco e Cioran, esuli rumeni che hanno scelto di scrivere francese. Non so. Forse gli avrei detto che noi scrittori della francofonia siamo sempre costretti a spiegare perché non scriviamo nella nostra lingua madre. Ce lo chiedono spesso con aggressività, come se fossimo responsabili delle fluttuazioni storiche e politiche dei nostri paesi. E poi avrei tanto voluto fargli leggere un passaggio di uno dei suoi testi, come ad esempio queste righe di Pour finir encore (Éditions de Minuit, 1976): «luogo dei resti dove un tempo nel buio di quando in quando splendeva un resto. Resto dei giorni del giorno mai luce tanto debole quanto la loro così pallida». Mi piace questa frase perché è misteriosa. E una poesia che avrebbe potuto recitare Antonin Artaud. Il «resto dei giorni del giorno (/della luce)» mi ossessiona. Ripeto internamente questa frase come una preghiera in una lingua sconosciuta. Mi piace.
Non gli piaceva mostrarsi in pubblico. Scriveva esattamente come sentiva venire le parole. Credo che forse Beckett sia lo scrittore assoluto, quello che non ha fatto che obbedire al suo istinto, alla sua forza interna, e che ha espresso il dolore dell´uomo perso nel dolore immenso del mondo. Un po´ come James Joyce. E´ riuscito a esistere e a essere rispettato senza mai fare la più piccola concessione, il più piccolo gesto per facilitare i rapporti. E´ un Jean Genet più discreto, meno provocatorio, o, se è provocatorio, lo è a sua insaputa. E ciò che scrive che ci preoccupa, ci disturba e ci porta a essergli debitori.
Sì, in quanto scrittore sono in debito con Beckett nel senso che, se sono in cammino verso l´esigenza e lungi dall´averla raggiunta, lo devo a lui. Non lo leggo per sapere che cosa succede in una storia, ma per vedere come e con quale prodezza, con quanta semplicità e limpidezza a volte ci scrive non le storie, ma il mondo, l´angoscia e le paure dell´uomo come se il bambino nell´uomo non fosse mai completamente scomparso. Lo leggo perché mi piace provare a entrare nel labirinto dei suoi pensieri. Non è semplice.
Non è facile. E´ causa di insonnia. Ma la letteratura che resiste alla facilità è la letteratura che raggiunge la realtà con la maggiore fedeltà possibile. Perché la realtà è di una complessità di cui non abbiamo idea. Beckett l´ha capito e ha passato la sua vita a provarcelo.
Grazie, signor Beckett.
(Traduzione di Elda Volterrani)