La nomina di Salvatore Settis alla Presidenza del Consiglio dei Beni Culturali chiude il primo capitolo di una polemica accesasi sulla stampa dopo la pubblicazione del volume Gli storici dell’arte e la peste di Sandra Pinto (Electa), a seguito della quale sulle pagine del Corriere della Sera del 23 maggio si è aperto un dibattito sul rapporto fra politica, grandi eventi espositivi e conservazione dei beni culturali. Nell’inserto de il Sole 24 ore di domenica 28 maggio, Settis aveva messo i piedi nel piatto, titolando il suo pezzo “Benculturalismo parolaio”, inteso come forma cronica di patologia della politica culturale delle Istituzioni, molto poco riguardosa della conservazione dei Beni culturali e, piuttosto, protesa alla spettacolarizzazione della cultura a fini di lucro.
A questo proposito Marco Magnifico, amministratore delegato del Fai (Fondo dell’ambiente italiano), intervistato venerdì scorso da Vittorio Bonanni su Liberazione, aveva denunciato «la riforma del Ministero, che ha aumentato i direttori centrali da dieci a quarantaquattro, depauperando le finanze delle strutture periferiche, ovvero le sovraintendenze, a favore di quella centrale». Si capisce così per quale ragione Rutelli, alla sua prima uscita da ministro abbia affermato: «A quattrini stiamo veramente male. Mancano anche i soldi per pagare la benzina agli ispettori che vanno a fare i sopralluoghi».
Se si pensa poi che l’Italia è il paese dove sono custoditi i tre quarti dei tesori d’arte dell’umanità, ben si comprende perché Magnifico, facendo propria l’esortazione di Settis, sottolinei la necessità da parte delle Istituzioni di prestare attenzione alla tutela dei Beni culturali, prima che alla promozione di eventi effimeri e di dubbia utilità. Settis si è spinto a definire il 90 % delle grandi mostre inutili o dannose.
La nostra opinione in merito è forse un po’ meno severa. Ma non c’è dubbio che la politica espositiva seguita dalle nostre Istituzioni sia fra le meno difendibili a livello internazionale. In particolare non si può negare che le iniziative più ciclopiche e reclamizzate con grande sfoggio di merchandising, produzione di gadget, chincaglieria kitsch, magliette, posters e reiterata-compulsiva attenzione alla storia degli Impressionisti (para, pre, post e neo) nulla hanno a che vedere con la promozione della nostra arte, che evidentemente non finisce (come qualche bacchettone ha sostenuto in passato) con il Tiepolo.
Non si tratta di aprire un processo a favore della conservazione del nostro patrimonio e contro le “Grandi mostre”. Si tratta, piuttosto, data per scontata la necessità di fondo di tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico-culturale (vedremo se Rutelli e il Governo si mostreranno all’altezza), di stabilire quante e quali mostre promuovere, imponendo un indispensabile coordinamento fra i vari Enti interessati. Il problema non è se fare le “Grandi mostre” ma stabilire quali fare, a quali costi e con il concorso di chi, senza pretendere che le scelte decisive siano a carico esclusivo degli Sponsor.
In questo senso una scelta di sobrietà e di controllo delle attività speculative che si scatenano attorno ai grandi eventi ci pare indispensabile. Come pure indispensabile appare la necessità di ri-pensare la nostra storia recente relativamente alle arti visive.
A Roma, tanto per fare un esempio, non è stata ancora presa nemmeno in considerazione una programmazione di eventi volti a valorizzare la grande stagione dell’Astrattismo degli anni ’50, o l’arte Para-Pop degli anni ’60 o le vicende della pittura degli anni ’80 e ’90 o, tanto per fare un esempio più “classico”, di valorizzazione delle Scuole romane degli anni ’20 ed ‘30
Questo non capita in nessun altro paese nel mondo. “Forma Uno”, “Scuola di Piazza del Popolo”, “Nuova Scuola romana”, “Scuola di Via Cavour”, “Ecole de Rome” intese come vicende di gruppi e di movimenti di stile e di linguaggio, e non solo di singole personalità, sono realtà pressoché inesplorate, ove si eccettui un’attenzione sporadica a singoli personaggi che segue l’onda di eventi congiunturali.
Mostre ricapitolative importanti sull’Arte Povera e la Transvanguardia o sulle precedenti ricerche concettuali e pre-minimaliste (chi conosce in Italia un artista fondamentale e anticipatore come Francesco Lo Savio?) sono ancora in attesa di essere realizzate.
Porre attenzione alla nostra storia ci eviterebbe, se non altro, le disavventure legate all’importazione, con la formula “chiavi in mano”, di mostre rifiutate da altri paesi perché scientificamente poco autorevoli e scarsamente sostanziate. Questo non significa sposare atteggiamenti sciovinistici. Significa solo essere all’altezza della propria storia. Oltre tutto crediamo che, in tempi di indispensabile austerità, questa politica avrebbe costi sicuramente più contenuti. La qual cosa servirebbe, se non altro, a far trovare i soldi per la benzina delle auto degli ispettori dei Beni culturali. Vi pare poco?