Governo Prodi vicino al «game over». I centristi ricattano, la sinistra si gioca tutto

L’ennesimo «falò delle vanità» che andrà in scena dpmani nell’aula del senato sulla Rai non avrà effetti diretti sul governo. Va bene la perversa centralità di viale Mazzini nell’agorà politica ma un governo europeo non cade per due poltrone in un consiglio di amministrazione. Non vuol dire però che l’inevitabile guerriglia su mozioni, virgole ed emendamenti sia senza significato. Al contrario, domani in aula ci sarà una «vetrina» dove in tanti si metteranno in mostra a costo zero per condizionare la partita vera, quella sulla finanziaria che pochi giorni dopo arriverà nella giungla di palazzo Madama.
Schiacciato tra il Pd e una sinistra (più o meno) unitaria, il centro dell’Unione è attraversato da uno tsunami permanente.
L’Udeur di Mastella tirerà sul presidente della Rai, il Ds Petruccioli, per rinsaldare l’alleanza con l’Udc di Casini. Chiusasi la porta del Pd, l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro è in crisi profonda, e flirta più con le piazze di Beppe Grillo che con gli alleati. Anche l’Ulivo si sfronda a destra ogni giorno di più. Prima l’uscita dei «battitori liberi» Willer Bordon e Roberto Manzione, poi il passaggio al gruppo misto di Domenico Fisichella (DL ex An), infine l’ annunciato «appoggio esterno» della pattuglia «liberal-democratica» di Dini con l’aggiunta significativa del «parisiano» doc Natale D’Amico. L’esperienza della Margherita appartiene ormai alla preistoria. l
A conti fatti, almeno sulla carta, a palazzo Madama Romano Prodi non ha più una maggioranza definita. Anche se Dini, almeno per ora, esclude pubblicamente il «salto della quaglia», l’aria che tira è davvero da fine legislatura.
E’ logico che in una palude simile chi non ha nulla da perdere provi il colpo grosso. E si metta in vetrina per candidarsi come garante di equilibri sicuri e consolidati su riforme, welfare e chissà, un domani, perfino sul rapporto con gli Usa (i soldati italiani in Afghanistan operano al confine con l’Iran).
«Vediamo se il governo riesce a far approvare il protocollo Damiano. Prodi ha detto che è immutabile, quindi non voterò modifiche sostanziali nemmeno se c’è la fiducia», è la sfida non casuale di Lamberto Dini. Il disegno è abile e preciso: stroncare sul nascere qualsiasi ipotesi di mediazione tra Prodi e la sinistra sul welfare e nello stesso tempo condizionare la trattativa con i sindacati sui tagli alla spesa e nella pubblica amministrazione.
C’è da scommettere che al momento opportuno a sostenere i ricatti «diniani» arriverà in prima fila anche la ministra Emma Bonino. I radicali, orfani dello Sdi e senza rappresentanti in senato, hanno un disperato bisogno di visibilità. Quale bersaglio migliore della vituperata sinistra «radicale»?
E’ in questo clima plumbeo che stamattina i leader di Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica torneranno a riunirsi. Un vertice convocato per limare le richieste sulla finanziaria da presentare a Prodi forse già domani, prima del consiglio dei ministri.
Ormai quasi perfezionata, la lettera non ha ancora sciolto il nodo del superamento dello «scalone Maroni». Il testo di partenza è «anodino», più simile alla linea Mussi che a quella Giordano: «Garantire con maggiore equilibrio e nel rispetto del programma – si legge nel documento – il superamento della legge in vigore sulla previdenza entro il 31 dicembre». Oggi decideranno i segretari se e come cambiarlo.
La sinistra ha tutto da perdere con una crisi di governo ora. Soprattutto se il «gioco del cerino» in corso da mesi riuscirà ad addossarle, paradossalmente, ogni responsabilità. La destra dell’Unione si produce in ricatti senza pagare alcun prezzo. I tempi e i margini di scelta si assottigliano. C’è da augurarsi che i 150 parlamentari della sinistra non siano meno combattivi dei quattro gatti del presunto «Rinnovamento italiano».