Governo e alternativa: un nesso non scontato

Mi pare utile cogliere l’opportunità offertaci da “Liberazione” di discutere le 15 tesi del segretario, constatando che esse costituiscono di fatto l’esordio del nostro dibattito congressuale, e credo che sia opportuno lasciar prevalere l’urgenza del merito da esse proposto su considerazioni procedurali o di metodo.

Sconfiggere le destre: un compito per i comunisti
Vengo dunque a quello che ritengo essere lo snodo centrale dell’argomentazione (e del congresso stesso): la questione del governo, così come è affrontata nella tesi 11. In quest’ultima si ribadisce che ci troviamo davanti ad un’ineludibile passaggio di fase e all’«esigenza improrogabile di sconfiggere il governo Berlusconi e costruire ad esso un’alternativa». Condivido l’enfasi che connota questo giudizio. Ho sempre pensato che questa è oggi la sfida principale con cui, nel nostro paese, i comunisti devono fare i conti e che, in tale prospettiva, un fallimento sarebbe pagato a caro prezzo: non semplicemente dal Prc, ma da tutto l’arco delle forze di progresso, dai movimenti di massa e dalle classi subalterne. Chi tergiversasse e non cogliesse la preminenza di tale compito commetterebbe un grave errore politico.

Quali pregiudiziali per un programma d’alternativa
Accanto a questo, è altrettanto giusto sottolineare che l’obiettivo del governo non è un valore in sé, bensì una scelta contingente che può essere praticata quando è funzionale al più generale (strategico) obiettivo della trasformazione sociale: quando cioè il possibile programma di governo favorisce (e non inibisce) il processo in direzione di un’alternativa di società (tesi 13). Fin qui l’accordo è completo.

La discussione si fa più problematica a partire dalla constatazione che la suddetta potenzialità non è scontata; e, anzi, ad oggi non è data. Non basta allora evocare la possibilità che «l’esperienza di governo» sia «in funzione della crescita qualitativa dei movimenti» e di «una più vasta, complessa e lunga azione politica nella società». Occorre – sin d’ora e con chiarezza – precisare a quali condizioni tale possibilità è suscettibile di realizzarsi davvero. In altri termini, l’unica garanzia che oggi abbiamo a disposizione, nell’ipotesi di un nostro impegno di governo, è l’ancoraggio ad un determinato programma di alternativa, in assenza del quale l’utilità politica di un nostro diretto coinvolgimento nell’esecutivo rischierebbe di tradursi nel suo opposto: in un drammatico processo involutivo, che – temo – non risparmierebbe neanche il nostro partito.

Nessuna incertezza sulla fine dell’occupazione in Iraq
Troppo serie e idealmente cariche sono le questioni su cui anche il futuro governo sarà chiamato a cimentarsi. A cominciare dalla situazione internazionale, così gravemente segnata dallo stato di guerra. Qui come altrove pesano le irrisolte contraddizioni interne all’Ulivo e ai Democratici di Sinistra. Con ogni evidenza si è fatta strada ai vertici della “sinistra moderata” – sulla spinta della sua componente più dichiaratamente liberale – l’idea di una ripresa a tutto tondo delle relazioni transatlantiche: essa sarebbe ulteriormente sancita dall’eventuale ascesa alla presidenza statunitense del candidato democratico e si concretizzerebbe con la riattualizzazione del multilateralismo diplomatico e militare. Beninteso, ciò non significherebbe il porre immediatamente fine all’occupazione irachena, né salvaguarderebbe da ulteriori avventure belliche: piuttosto assicurerebbe la ricerca di una conduzione concertata e di una ripartizione delle responsabilità (nonchè degli eventuali ricavi). Stiamo parlando di una prospettiva che concerne nel futuro prossimo i rapporti tra Usa ed Europa: si tratta dunque di una partita che non è giocata solo nel nostro paese, ma che riguarda l’Unione Europea come tale, il suo profilo politico generale, il suo destino in quanto entità politica autonoma.

Entro il suddetto punto di vista, il ritiro delle truppe dall’Iraq – cui ormai quasi tutti in qualche modo sentono il bisogno di alludere – viene inteso come il frutto di un’azione per l’appunto “concertata” tra tutti gli attori coinvolti (a diversissimo titolo) nella vicenda e come il risultato di un ritorno dell’Iraq alla normalità della sua vita civile e istituzionale. Noi sappiamo che questa è una cortina fumogena che copre la realtà: e cioè che, ad oggi, in quel paese continua lo stillicidio del massacro di popolazione civile ad opera delle truppe occupanti, che – come ha scritto Raniero La Valle su “Liberazione” – Falluja continua ad esser messa a ferro e fuoco e i guerriglieri che la difendono sono secondo la BBC al 99% abitanti di questa città, che l’autorità del governo provvisorio è diffusamente rigettata in quanto “collaborazionista”, che le imminenti elezioni che dovrebbero inaugurare il rilancio della normalità istituzionale sono destinate ad essere delle elezioni farsa. In estrema sintesi, questo è lo stato delle cose. Questi sono i risultati di un intervento criminale, concepito nel quadro di un più generale disegno (imperialista) di espansione economica e militare, sulla cui scìa vengono già lanciati segnali premonitori alla prossima vittima designata (Iran o Siria che sia).

Davanti a un tale disastro, la nostra richiesta è del tutto limpida: fine immediata dell’occupazione dell’Iraq e impegno a rifiutare qualunque coinvolgimento in operazioni o interventi militari anche sotto l’egida delle Nazioni Unite, unilaterali o multilaterali, in Iraq o altrove. E’ bene essere tra di noi del tutto chiari. Io penso che il nostro congresso debba sancire che sul tema della guerra il confronto programmatico non possa lasciare incertezza alcuna: dovremo in altri termini esigere un impegno stringente, non potremo accontentarci di un accordo vago, all’insegna del “vedremo quel che si può fare”.

Salari, democrazia nei luoghi di lavoro, abrogazione delle leggi-vergogna
Questo punto deve essere contenuto nel programma del governo di alternativa, accanto all’impegno per un dispositivo di rivalutazione automatica delle retribuzioni, a quello per il varo di una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, all’abrogazione delle leggi-vergogna promulgate dal governo delle destre. Ritengo vada detto senza infingimenti che, nel caso di un esito insoddisfacente del confronto, non possano essere precluse a priori delle vie subordinate, le quali garantiscano comunque al “popolo della sinistra” il raggiungimento di un assetto elettorale che consenta di battere Berlusconi, pur in assenza di ministri comunisti nel futuro governo. Non è evidentemente questo l’auspicio; e tuttavia, stante l’attuale estrema fluidità della situazione politica, non vedo quale altra corretta metodologia potrebbe essere adottata. Posto che ancora valga il principio: prima i contenuti, poi gli schieramenti.