Governo, alleanze e conflitto sociale: l’esigenza di un’autocritica non dimezzata

Il compagno Ferrero, lo scorso 5 dicembre, al Brancaccio, nel giorno della Federazione della Sinistra, ha preso un impegno solenne, che se si concretizzasse segnerebbe un positivo ed importante punto di svolta rispetto alla cultura politica e alla prassi istituzionale del Prc e dell’intera Federazione di Sinistra. Ferrero ha affermato – riferendosi ai voti favorevoli alle missioni di guerra in Afghanistan espressi dal Prc durante il governo Prodi – che mai più si dovranno anteporre le ragioni della difesa di un governo moderato alle ragioni della lotta contro la guerra. Nelle parole del segretario è emersa sia una profonda autocritica per il ruolo svolto da Rifondazione durante il governo Prodi che un’indicazione forte per il futuro: rispetto alle guerre, alle spese militari e alle strategie della Nato ( ricordiamo Vicenza?), nessuna subordinazione sarà più possibile.

Credo che occorra assumere con grande favore le parole del segretario, tanto più in questa fase in cui la guerra in Afghanistan si inasprisce di nuovo, aumentano gli impegni militari imperialisti – a cominciare dagli Usa di Obama per finire all’Italia di Berlusconi – e si riapre la discussione sulle alleanze con il centro sinistra, sia per le regionali che per le future elezioni nazionali.

Da questo punto di vista l’impegno assunto da Ferrero non vuol forse dire che mai più i comunisti faranno parte di governi moderati, segnati da politiche filo Nato, volti alle guerre e subordinati agli interessi del grande capitale italiano e dell’Unione europea di Maastricht e di Lisbona? Sì,vuol dire proprio questo.

Ma per far sì che l’autocritica non si riduca ad una transitoria mozione morale e che l’indicazione per il futuro sia credibile ( soprattutto per la “classe”, ma anche per i soggetti sociali esterni al Prc, per il movimento contro la guerra, per il nostro stesso elettorato), occorrerebbe gettare un po’ di luce sul nostro recentissimo passato, riempiendo di contenuti un’autocritica che, diversamente, risulterebbe un po’ facile e superficiale.

Occorrerebbe riformulare a noi stessi alcune di domande, che mai ci siamo seriamente posti e le cui risposte potrebbero rivelarsi lezioni per l’oggi e per il domani: vi erano le condizioni sufficienti per entrare nel governo Prodi? Entreremo mai più in un governo simile? La lotta degli “otto senatori ribelli ” (quattro del Prc) contro il rifinanziamento della guerra in Afghanistan durante il governo Prodi era solo da ostacolare, irridere, emarginare, intimorire, come avvenne, o era un’indicazione – magari solo una disperata evocazione – di lotta che l’intero partito e l’intera sinistra parlamentare e sociale potevano/dovevano assumere, sviluppandola? Domanda che ne chiama un’altra : come coniugare – una volta entrati nei governi, anche locali – la lotta istituzionale a quella sociale?

Vi fu un momento in cui la battaglia degli otto sembrò poter avere un minimo di base sociale e ricucire parzialmente il rapporto gravemente lacerato tra comunisti e movimento contro la guerra: in quel momento scattò con reiterata durezza, da parte dell’allora segretario Franco Giordano, la minaccia, contro i quattro senatori, dell’espulsione ( poi praticata, per il suo voto contrario, contro il compagno Franco Turigliatto).

Vi fu un momento in cui, a partire dalla resistenza degli “otto” e allargando la lotta sul piano parlamentare e sociale, i comunisti e la sinistra potevano forzare sul governo Prodi per ottenere sia un positivo cambiamento di linea sulla questione Afghanistan che la ricostruzione dei rapporti con il movimento pacifista e l’intero movimento di Genova: questo momento fu gettato via. Tra gli stessi parlamentari Prc maturò – assieme alla sofferenza, allo sconcerto, al disorientamento, alla passivizzazione – una contrarietà ( persino una dura ostilità) alla lotta degli “ otto” e si costituì un’idea prevalente che apparve più uno spostamento dei problemi ( in senso politico-psicologico) che una linea razionale: l’idea secondo la quale “ non era l’ora della battaglia ”.

La compagna e senatrice Lidia Menapace sostenne che si doveva attendere, pazientemente, la vittoria di Obama, che avrebbe mutato la linea Usa in Afghanistan; il compagno e deputato Ramon Mantovani ( che, pure, avanza ora una critica serrata alle inclinazioni e alle deviazioni istituzionaliste) asseriva che “non era quello il modo di battersi” ( d’accordo, Ramon: qual era, dunque, il modo giusto? Uno doveva essercene. E nessuno ve ne fu…); il compagno Giovanni Russo Spena ( capogruppo PRC al Senato e militante segnato da mille esperienze e lotte pacifiste) controllava, non proprio bonariamente, i suoi quattro senatori indisciplinati e guastafeste; la compagna Vladimir Luxuria, nelle riunioni congiunte dei gruppi PRC della Camera e del Senato, si lanciava in attacchi violenti contro i ribelli, schierandosi decisamente con la linea della stigmatizzazione e della repressione e divenendo una paladina del teorema dell’espulsione, enunciato da Giordano e fatto proprio da molti di coloro che, entro breve tempo, sarebbero stati prima i teorici del superamento dell’autonomia comunista nell’Arcobaleno e poi gli scissionisti “vendoliani”.

Il collante che teneva assieme l’ala governista dura e repressiva con le colombe interne era di questa natura: non si poteva lasciare il Paese alle destre; ma ciò senza considerare che tra il chinare la testa e far cadere il governo vi era un’altra possibilità: quella di rilanciare e sostenere il movimento contro la guerra legando l’iniziativa sociale a quella parlamentare. E non si considerò che abdicando ai loro compiti (si pensi anche alla Legge 30, alle pensioni, alla base di Vicenza, allo scudo spaziale USA in Europa, accettato per vie extraparlamentari, direttamente attraverso un accordo firmato da un sottosegretario del governo Prodi alla Casa Bianca) i comunisti e la sinistra laceravano i loro legami sociali e contribuivano a spalancare le porte ad una vittoria delle destre di carattere strategico.

La lotta degli otto potrebbe essere oggi positivamente riconsiderata, sia rispetto all’esigenza che hanno i comunisti di focalizzare al meglio la coniugazione tra conflitto istituzionale e sociale, che in relazione alla fase attuale. La quale impone ai comunisti di essere parte di un vasto fronte politico-elettorale “costituzionalista” volto a sconfiggere l’eversione berlusconiana e, insieme, chiede loro di evitare ogni coinvolgimento in un eventuale e possibile governo di transizione liberal-democratica ma ancora vincolato e subordinato agli Usa, alla Nato, al grande capitale, al Vaticano e all’Unione europea.