Gore Vidal: «Democrazia negli Usa? Un parolone»

Lo scrittore americano presenta in Italia il suo nuovo libro sui padri fondatori degli Stati Uniti
e riflette sulla situazione attuale del paese: «Una società resa debole per essere controllata»

«Certo, in America ci sono le elezioni. Ma da questo a parlare di democrazia, ce ne corre». Gore Vidal non conosce mezze misure, se volete sentire un americano davvero inflessibile verso il suo paese, potete rivolgervi tranquillamente allo scrittore, non vi deluderà. Anche oggi, a poco più di ottant’anni, questo intellettuale raffinato, rampollo di una grande famiglia del Sud, nato alle porte di New York e vissuto tra la Grande mela, Los Angeles e la sua villa di Ravello sulla costiera amalfitana, non rinuncia ad analizzare in modo netto la situazione del suo paese. «Negli Stati Uniti non esistono o quasi sindacati, un servizio sanitario pubblico o un sistema scolastico statale. La società è stata divisa, frammentata, per poter essere controllata meglio, repressa… davvero ha senso parlare di democrazia in questo caso?», si interroga quando lo incontriamo a Roma dove presenta il suo ultimo libro, un saggio dedicato ai padri fondatori dell’America, personaggi come George Washington o Thomas Jefferson, appena pubblicato da Fazi, L’invenzione degli Stati Uniti (pp. 184, euro 13,00).
Romanziere di successo, saggista, icona della comunità gay americana, tra le figure di riferimento delle culture progressiste cresciute nei campus universitari della California o di New York fin dagli anni Sessanta, Vidal alterna l’esame delle vicende della storia americana alle sue incursioni letterarie o giornalistiche. Accanto alla traduzione italiana del suo libro sui “padri fondatori” (che giovedì sera alle 21 presenterà all’Hotel Majestic di Roma insieme a Furio Colombo), proprio in questi giorni esce, riunita in un unico volume, la sua Trilogia dell’impero, Fazi, un esame impietoso dell’american way of life del nuovo millennio.

Il suo lavoro sembra muoversi rapidamente tra il passato e il presente della storia americana. Indagando sull'”invenzione degli Stati Uniti” ha trovato tracce di quell’idea così attuale che l’unicità della democrazia americana la renda un prodotto da esportazione?

Si trattò di un evento unico e decisamente nuovo, questo va riconosciuto. Gli americani sostenevano che non ci sarebbe potuta essere alcun tipo di tassazione senza una equivalente rappresentanza politica di chi veniva tassato. In altre parole se gli inglesi ci avessero permesso di mandare qualche delegato delle colonie americane al parlamento di Londra, forse non avremmo avuto la nostra Rivoluzione. Rimane il fatto che invece gli americani hanno combattutto per staccarsi dal dominio della Corona britannica e, contro la monarchia inglese hanno costruito la loro repubblica. Non la democrazia, ma una repubblica, credo che questa differenza vada sottolineata. Per l’epoca, comunque, era già molto e non a caso l’esempio americano ha influenzato anche i francesi e la loro rivoluzione democratica.

Oggi il primato americano viene rivendicato anche “in nome di Dio”, ma questa sovrapposizione tra lo spazio della politica e quello della fede appartiene alla genesi degli Stati Uniti, si tratta di una “missione” che data dalle origini degli Usa?

Direi proprio no, si tratta di qualcosa di nuovo, di un fenomeno apparso, con questa evidenza, solo nell’ultimo mezzo secolo. Credo che il ruolo che la religione ha assunto negli Usa, e di conseguenza l’uso che della fede viene fatto dall’amministrazione di Washington, sia in realtà frutto del diffondersi dei media e in particolare della televisione nella vita del paese. Senza la tv e i telepredicatori evangelici che predicano via etere che basta mettere una mano sullo schermo per essere “salvati”, l’America non sarebbe, in negativo, quella che è oggi.

Nel libro lei mostra chiaramente come il razzismo attraversasse l’America fin dalle sue origini. Con le immagini della New Orleans nera abbandonata a se stessa, questa realtà è tornata visibile a tutti…

La “guerra razziale” negli Stati Uniti non si è mai conclusa e quindi non mi stupisco più di tanto della situazione attuale. Quello che posso dire è che la tragedia dell’uragano Katrina ha messo brutalmente in evidenza questo stato di cose: tutti hanno potuto assistere, per così dire “in diretta”, al disinteresse o meglio al disprezzo assoluto che questo governo ha espresso verso gli afroamericani. E’ diventato così evidente qualcosa che i cittadini degli Stati Uniti conoscono però già molto bene, purtroppo.

Katrina sembra aver scosso le coscienze degli americani molto più di quanto ha fatto fino ad ora la guerra dell’Iraq, perché?

Credo che la differenza maggiore nella reazione degli americani alle due tragedie, una naturale e quindi forse almeno in parte inevitabile e l’altra assolutamente evitabile e tutta ascrivibile alle responsabilità dell’amministrazione di Washington, vada cercata nel ruolo che vi hanno svolto i media. Perché, vede, nel mio paese i media sono veramente corrotti e decidono ogni giorno quale realtà raccontare e quali fatti far conoscere ai cittadini. Così, dell’Iraq viene mostrato solo ciò che si vuole, non si vedono le immagini dei soldati americani che tornano a casa dentro le bare o le foto dei loro corpi straziati. Di tutto ciò nel giornalismo americano non c’è quasi traccia e così i miei concittadini non solo non sanno cosa sta accadendo leggiù, ma fanno anche molta fatica a farsi un’opinione e a esprimere un giudizio sulla guerra. Con Katrina, invece, questa manipolazione della realtà non si è potuta verificare, perché le immagini della tragedia, insieme a quelle che documentavano i drammatici ritardi nei soccorsi, hanno cominciato a fluire in diretta senza che nessuno riuscisse a fermarle. E tutti le hanno viste: giorno dopo giorno.

Quindi ha ragione chi ha detto che a fare la differenza è stato il fatto che stavolta i morti li hanno visti tutti?

Penso proprio di sì. Normalmente la Casa Bianca controlla il cento per cento dei media, ma con Katrina, data l’estrema vicinanza degli avvenimenti e il fatto che ogni tipo di media, compresi quelli amatoriali e semi-indipendenti si sono mossi subito, la situazione è sfuggita di mano all’amministrazione e le informazioni sono arrivate in modo più libero. Mentre è davvero difficile pensare di poter leggere un’analisi realistica di quanto accade in Iraq sulle pagine del New York Times…

Sui media si potrà anche esercitare un simile controllo, ma il silenzio o perlomeno la debolezza degli interventi degli intellettuali americani contro la guerra in Iraq, come si spiegano? E’ ancora la difficoltà ad intervenire del dopo 11 settembre che pesa sul clima del paese?

Beh, intanto ci sono io… Scherzi a parte, oggi in America è davvero difficile avere spazi, pubblicamente, per dire cosa si pensa della guerra. Perfino a me, che ho fatto televisione per anni e posso considerarmi un privilegiato per quanto riguarda il rapporto con i media, negli ultimi quattro anni è stato sempre più difficoltoso parlare in tv. Su di me è calato il sipario quasi completamente e le poche volte che mi capita di poter intervenire in qualche trasmissione mi trovo a dover rispondere a uno stuolo di neoconservatori urlanti che non mi danno nemmeno il tempo di terminare una frase. E’ così per tutti, se uno si azzarda anche solo a citare il numero dei morti in Iraq, gli tolgono direttamente il microfono… La censura è pressoché totale, ai limiti di un clima dittatoriale. Quanto all’11 settembre, certo quella tragedia pesa ancora sugli umori dell’America. Il fatto è che la reazione all’attacco di quei musulmani fanatici è stato del tutto folle, e ha prodotto una situazione di paura ancora maggiore. Se qualcuno ti attacca, in genere chiami la polizia, certo non scateni una guerra. Solo che la guerra conviene molto di più, ti permette di distruggere quasi completamente un paese e poi di affidare a una delle società del vicepresidente Dick Cheney, come la Hurleu Burton, tutti i contratti per ricostruirlo… Si tratta davvero di un bel gioco, non c’è che dire.