Il caso di Judith Miller, incarcerata per «difendere la sua fonte»: un Watergate al contrario. La Casa bianca usa la cronista per coprire i propri misfatti. E la talpa è l’uomo di Bush, Karl Rove
Congratulazioni a Judith Miller del New York Times, che ha scelto il momento giusto per avvolgersi nella bandiera della libertà di stampa e andare in prigione (per qualche giorno) piuttosto che rivelare la sua fonte confidenziale. A poche settimane dallo scoppiettio di fuochi artificiali attorno alla rivelazione che «Gola Profonda», la talpa del caso Watergate, esisteva davvero ed era l’ex dirigente del Fbi Mark Felt, la Miller ha dimostrato una capacità di entrare in scena degna di Wanda Osiris. Che poi sia un’eroina del giornalismo americano, come la definisce il sito web della American Journalism Review, è questione assai più complessa. La rivista, in un articolo del direttore, scrive testualmente: «Forget Ahmed Chalabi and all of those off-target stories about Saddam’s WMD. When crunch time came, Miller hung tough». In altre parole, la protezione delle fonti sarebbe infinitamente più importante di tutte quelle «storie fuori bersaglio sulle armi di distruzione di massa (WMD) di Saddam», storie da «dimenticare». Su questo, tuttavia, è lecito qualche dubbio. Quelle che la rivista definisce pudicamente «storie fuori bersaglio» erano in realtà gli articoli frutto di una deliberata, organizzata e continua campagna di inganno sulle armi di distruzione di massa irachene attuata dall’amministrazione Bush. Poiché il risultato di questa manipolazione dell’opinione pubblica è stato l’invio di truppe americane in un territorio dove hanno subìto oltre 1.700 morti, senza contare le decine di migliaia di militari e civili iracheni, queste «storie fuori bersaglio» hanno avuto conseguenze difficili da «dimenticare», almeno per ora.
Soprattutto, un canale preferenziale di questa campagna di manipolazione è stata proprio Judith Miller, la presunta eroina del giornalismo americano.
Autocritica
Facciamo un passo indietro: nel maggio 2004, il New York Times pubblica un’autocritica per gli errori e imprecisioni di cui si era reso responsabile «durante il preludio alla guerra e nelle fasi iniziali dell’occupazione dell’Iraq». Il giornale cita, in particolare, alcuni articoli della Miller pubblicati nell’autunno 2001, dove si descrivevano campi di addestramento in Iraq, in cui terroristi venivano addestrati e venivano prodotte armi biologiche. Il 20 dicembre 2001, un altro articolo in prima pagina citava un disertore iracheno che si presentava come un ingegnere che aveva personalmente lavorato in laboratori segreti per armi chimiche, biologiche e nucleari situate in pozzi sotterranei, ville private e sotto l’ospedale Saddam Hussein di Bagdad. Queste notizie si sarebbero rivelate false, cosa che il New York Times ha ammesso nel linguaggio tortuoso che gli è proprio quando sa di averla fatta grossa: «In certi casi, informazioni che erano controverse allora, e appaiono discutibili oggi, furono pubblicate senza sufficienti precauzioni, o pubblicate senza un commento critico».
Gli articoli «problematici», continuava l’editoriale del New York Times, avevano un elemento comune: «Dipendevano, almeno in parte, da una cerchia di informatori, disertori ed esuli iracheni il cui obiettivo era un cambio di regime in Iraq, persone la cui credibilità è stata al centro di un crescente dibattito pubblico nelle ultime settimane». Tra questi, il Times cita con nome e cognome Ahmed Chalabi, i cui racconti «venivano spesso confermati con entusiasmo da funzionari governativi convinti della necessità di intervenire in Iraq».
Ora, chi era l’interlocutore privilegiato di Chalabi? Judith Miller. E chi erano quei «funzionari governativi convinti della necessità di intervenire in Iraq»? Per esempio Karl Rove e Paul Wolfowitz, che erano in contatto Judith Miller. Di Rove, oggi sappiamo che era la talpa che ha rivelato il nome di Valerie Plame a Robert Novak (che fu l’autore dello scoop), a Matthew Cooper di Time, che quando ha visto arrivare le manette ha subito confessato, e alla Miller.
A questo punto, occorre soffermarsi sui motivi per cui la Miller si atteggia a martire e Cooper e Novak sono sotto inchiesta. Tutto parte dal fatto che una legge del 1982, voluta dall’amministrazione Reagan per proteggere le identità degli agenti segreti da pacifisti come Philip McAgee, definisce «crimine federale» la rivelazione dell’identità di un impiegato della Cia. All’epoca, ovviamente, nessuno pensava si potesse presentare il caso di un agente che viene «bruciato» proprio dalla Casa bianca per motivi di vendetta personale.
Valerie Plame, esperta di armi di distruzione di massa, è la moglie di Joseph Wilson, un ex ambasciatore che nel marzo 2002 venne mandato dalla Cia in Niger a indagare sulla famosa «bufala italiana», cioè la notizia, apparentemente giunta a Washington attraverso il Sismi, che Saddam Hussein stava cercando di comprarsi una grande quantità di «yellow cake» cioè di minerale di uranio potenzialmente utilizzabile per la costruzione di una bomba atomica. La «notizia» avrebbe potuto essere ridicolizzata facilmente intervistando alcuni scienziati indipendenti, che avrebbero potuto spiegare le difficoltà di passare dallo «yellow cake» alla bomba senza disporre di enormi risorse. Wilson, comunque, non ebbe difficoltà ad accertare che la storia era ridicola perché i documenti su cui si basava erano contraffazioni grossolane; ma il suo verdetto non piacque all’amministrazione Bush e il suo rapporto venne sepolto in un cassetto. Molti mesi dopo Condoleezza Rice, in un intervento sul New York Times, affermava ancora che «Saddam sta cercando di procurarsi l’uranio». Il 28 gennaio 2003, lo stesso Bush ripeteva l’affermazione nel suo discorso sullo Stato dell’Unione.
La guerra con l’Iraq avviene comunque e, nel luglio 2003, Wilson rivela che tutta la storia dell’uranio era falsa ed era stata usata dall’amministrazione come copertura per una decisione già presa. Non passano pochi giorni e Karl Rove, parlando con almeno tre giornalisti, fa sapere che Valerie Plame, la moglie di Joseph Wilson, è un agente della Cia, mettendo ovviamente fine alla sua carriera.
Rappresaglia
La rappresaglia è nel più perfetto stile di Washington: si parla soltanto con giornalisti amici, in deep background, cioè costringendoli a giurare sulla testa della madre che non riveleranno mai la loro fonte. I giornalisti accettano anche se sanno benissimo di rendersi complici di un reato: al contrario di Mark Felt, che rivelava le malefatte dell’amministrazione Nixon a Woodward e Bernstein per impedire che passassero sotto silenzio, in questo caso Karl Rove si serve di Judith Miller, Robert Novak e Matthew Cooper per realizzare il suo piano di screditare Wilson. I rapporti di Rove con Novak risalgono addirittura al 1980 e per ben due volte si scoprì che c’era lui dietro gli scoop del columnist conservatore.
Per capire il caso Rove-Wilson-Miller, il contesto politico è essenziale: l’ex ambasciatore voleva prevenire proprio ciò che è successo: la permanenza di truppe americane in un territorio occupato dove hanno subito oltre 1.700 morti, migliaia di feriti e, come si è detto, causato la morte di decine di migliaia di civili iracheni. La Casa bianca doveva quindi usare ogni mezzo per screditarlo o ricattarlo.
Al centro di tutto l’imbroglio c’è lui, Karl Rove, il «cervello di Bush» come viene definito nel titolo di un libro di successo. Cinquantacinque anni, in politica fin da quando ne aveva 18, a 19 diventa un protetto di Donald Segretti e, per lui, ruba la carta intestata di un avversario politico democratico, materiale che sarà poi usato per creare falsi volantini. Già, siamo nel 1969, ma il piccolo Karl ha già trovato la sua strada: quella dei «dirty tricks», gli sporchi trucchi contro gli avversari politici di cui Nixon è l’ispiratore e Segretti l’esecutore materiale. Segretti è, infatti, l’ideatore della campagna contro i democratici che condurrà al disastro Watergate. Un’esperienza da cui Karl Rove trarrà un solo insegnamento: mai farsi prendere.
Dal 1969 in poi, Rove ha sempre lavorato per il partito repubblicano, e in particolare per la famiglia Bush, collaborando alle campagne elettorali del 1980 e del 1992. E’ lui a presentare a Bush padre Lee Atwater, il consulente che farà vincere a Bush sr. la campagna elettorale del 1988. Il salto di qualità avviene però nel 2000, quando usa i suoi metodi preferiti per eliminare dalle primarie il senatore John McCain, un pericoloso avversario per la nomination (McCain è un eroe di guerra: rimase prigioniero in Vietnam per cinque anni e mezzo, mentre George W. se ne stava imboscato in Texas). Soprattutto, Rove riesce a trovare i temi giusti per far arrivare George W. in fondo alla campagna con abbastanza voti popolari, quasi altrettanti di quelli che prende il candidato democratico Al Gore. Poi, ci penseranno la Florida e la Corte suprema a catapultare Bush alla presidenza.
Non è chiaro cosa succederà nelle prossime settimane e se l’amministrazione Bush riuscirà a resistere alla pressione (giudiziaria e mediatica) per far dimettere Karl Rove, che come è emerso in questi giorni era perfettamente al corrente dello status di agente segreto di Valerie Plame e dunque ha commesso consapevolmente un grave reato. E’ invece chiarissimo che Watergate, i principi del giornalismo e la libertà di stampa in questo caso non c’entrano per nulla: si tratta soltanto di cortine fumogene per mascherare, una volta di più, la subordinazione del giornalismo al potere.
(Il libro di Fabrizio Tonello sul «Giornalismo americano» è stato pubblicato poche settimane fa da Carocci)