Globalizzazione o imperialismo?

L’attuale fase dell’economia mondiale viene contraddistinta prevalentemente con il termine “globalizzazione”; da parte di molti, inoltre, si sottolinea la novità storica di questa fase e, talvolta, se ne suggerisce l’irreversibilità.
I punti sui quali si intende soffermarsi sono i seguenti:
– globalizzazione è un concetto poco utile, perché qualitativamente è fuorviante e superficiale, e quantitativamente ambiguo, essendo numerose ed eterogenee le componenti attribuibili a tale tipo di processo;
-ammesso che si intenda utilizzarlo, si possono valutarne i limiti, constatando come esso possa perlomeno inadeguato a contraddistinguere come nuova l’attuale fase dell’economia mondiale, perché anche il periodo precedente la guerra 1914-18 ha presentato significativi elementi di globalizzazione;
– per il periodo, come per quello appena ricordato, più illuminante, pur rimanendo nell’ambito del linguaggio dominante può essere il ricorso ad altre categorie concettuali, come quelle di regionalismo e multilateralismo, in alternativa, o almeno insieme a quella di globalizzazione. Esistono, peraltro, le condizioni che consentono il rilancio del concetto di imperialismo per interpretare le vicende di allora come di oggi.
Il concetto di globalizzazione viene spesso utilizzato per descrivere una realtà mondiale che, dopo la caduta della contrapposizione complessiva tra due sistemi politico-economici radicalmente diversi, viene ottimisticamente ritenuta unificata sotto il segno dell’egemonia della way of life dei paesi occidentali, dove con way of life è un’espressione con la quale si intende fare riferimento ai valori fondamentali di un qualsiasi sistema. Nel corrente uso del termine “globalizzazione” si tende a sottovalutare, da un lato, l’esistenza di più way of life nell’ambito di tali paesi e, dall’altro, la presenza tuttora molto estesa di aree del mondo portatrici anch’esse di modelli alternativi di organizzazione sociale.
Limitando l’indagine al campo economico, va ricordato che la globalizzazione comprende un insieme di fenomeni, la cui articolazione e dinamica non possono essere correttamente racchiusi nella visione dell’operare , a livello planetario, di una grandissima invisible hand. Un elenco ampio, seppure non esaustivo, dei fenomeni attraverso i quali può essere colto il livello dell’internazionalizzazione è contenuto nella tabella seguente che riguarda i decenni precedenti la prima guerra mondiale (identificati, tra gli addetti ai lavori, come gli anni della Pax britannica) e quelli a noi più vicini (a loro volta contraddistinti come gli anni appartenenti all’American Century) . I dati sottostanti sono presentati in forma sintetica: il segno + corrisponde alla verifica convincente della presenza, per quell’aspetto specifico di significativo grado di internazionalizzazione; il segno – alla mancanza di tale verifica e il punto interrogativo, infine, all’assenza del riscontro empirico per l’inadeguata disponibilità di dati.

Tabella: Aspetti della globalizzazione

all’inizio del secolo alla fine del secolo
1 Merci + +
2 Servizi ? +
3 Investimenti di breve periodo – +
4 Investimenti di lungo periodo + +
5 Movimenti migratori + ?
6 Convergenza dei prezzi e dei salari + ?
7 Integrazione monetaria + –

Il risultato suindicato consente di avanzare queste considerazioni: i) la consistenza significativa dei processi di internazionalizzazione in entrambi i periodi rende discutibile l’idea di considerare come una novità storica l’andamento dell’economia mondiale negli anni recenti; ii) con riferimento al secondo periodo, in particolare, la presenza di barriere ostative, anche in forme talvolta odiose, come sappiamo dalle fonti di informazione in mancanza di dati sistematici, nei confronti del libero movimento migratorio, nonché la suddivisione del mondo in distinte aree monetarie rappresentano almeno due rilevanti elementi di confutazione dell’ipotesi di una raggiunta globalizzazione.
Il confronto tra protezionismo e libero scambio ha costituito un tema di grande richiamo nella storia del pensiero economico, anche per l’importanza politica delle scelte di politica commerciale; queste sono la sintesi di motivazioni, certamente economiche, che si accompagnano, tuttavia, a quelle di carattere politico, militare, religioso, psicologico,ecc. Quando si parla di motivazioni economiche, si fa riferimento inevitabile ai protagonisti della scena internazionale, di cui occorre individuare i ruoli e, conseguentemente, una plausibile gerarchia funzionale nell’ambito dei processi di internazionalizzazione attualmente in corso; dal punto di vista microeconomico, questi protagonisti sono le imprese multinazionali, gli investitori istituzionali, i grandi speculatori internazionali, che svolgono compiti diversi, non sempre convergenti tra loro. Il dualismo, manifestatosi nella Gran Bretagna imperiale tra il mondo dell’industria e quello finanziario. simboleggiato dalla “City” di Londra, può ripresentarsi, con articolazioni e forme nuove, nel cosiddetto “capitalismo globale “ dei nostri giorni. Possono verificarsi occasioni conflitto, anche acuto, ad esempio, quando due o più imprese multinazionali mettono in discussione le reciproche zone di influenza; tuttavia, le strategie di questi fondamentali protagonisti non sono da sole sufficienti a determinare un percorso storico senza il contributo delle istituzioni politiche, nazionali ed internazionali, che, tra l’altro, hanno il compito di definire il contesto di riferimento macroeconomico.
Al riguardo è indubbio che il multilateralismo abbia registrato un indubbio successo con la conclusione dell’Uruguay Round , che ha, rispetto al Gatt, allargato l’area degli argomenti regolati (tariffe, misure non tariffarie, proprietà intellettuale, ecc.) e consolidato la sua struttura istituzionale con la nascita della Wto. Questo traguardo fondamentale non deve fare dimenticare i suoi limiti: di rappresentazione geografica (molti paesi, anche grandi, non ne fanno ancora parte), di problemi importanti ancora elusi (investimenti internazionali), di compromesso con le posizioni protezionistiche.
Tali limiti sono, in linea di principio, tutti superabili, ma non con certezza; si profila così, con l’ingresso della Cina nella Wto, un’estensione straordinaria dell’area geografica coperta dal principale accordo multilaterale . Allo stesso tempo, tuttavia, benché la competenza della Wto sia più ampia di quella del Gatt, aspetti molto importanti delle relazioni economiche internazionali, come i movimenti di persone e di capitali, non hanno ancora trovato un adeguato inquadramento istituzionale. Per gli investimenti diretti, in particolare, c’è stato, al contrario, il proliferare di normative nazionali, in netta prevalenza volte ad incoraggiare, creando condizioni più favorevoli che altrove, l’afflusso di investimenti dall’estero, con procedure semplificate, notevole libertà di trasferimento dei profitti, incentivi fiscali, deroghe esplicite o di fatto dalla normativa tutelare dei dipendenti.Allo stesso tempo è anche vero che, per condizionare, in qualche misura, l’autonomia decisionale delle imprese multinazionali straniere, alcuni paesi insistono per attivare modalità nuove di penetrazione del capitale straniero (joint ventures, licensing agreement,ecc.).
D’altro canto, il tentativo più importante, in un’ottica multilaterale, di pervenire alla definizione di un accordo sugli investimenti diretti si è avuto in sede Oecd, con la proposta contrassegnata con l’acronimo Mai (Multilateral Agreement on Investment); tale proposta, come è noto, è stata criticata da varie fonti perché considerata, nel suo complesso, troppo sbilanciata a favore delle imprese multinazionali rispetto ai governi dei paesi di origine e dei paesi ospiti degli investimenti diretti, alle esigenze dei paesi in via di sviluppo, ai diritti dei lavoratori,
alla difesa dell’ambiente. Lo stesso Parlamento europeo ha adottato una presa di posizione molto incisiva, richiedendo, tra l’altro, di coinvolgere nella elaborazione della normativa, altri organismi internazionali come l’Unctad e la Wto, nonché le cosiddette organizzazioni non governative.
Quanto alla mediazione delle posizioni multilateraliste con quelle protezionistiche, cui si accennava in precedenza, si deve ricordare che uno dei filoni del confronto, già presente nel passato, tra i due opposti orientamenti in tema di politica commerciale ha ripreso vigore negli ultimi anni; esso può essere ricondotto all’alternativa tra multilateralismo e regionalismo, essendo quest’ultimo da considerare il percorso, sul piano politico più realistico, per tradurre oggi, nella pratica, una visione mercantilista. L’interdipendenza acquisita, sia pure con intensità diversa, dai sistemi economici nazionali, toglie, infatti, credibilità all’opzione protezionistica limitata ad un solo paese.
Una delle difficoltà di comprendere la possibile evoluzione dei processi in corso nasce, peraltro, dalla constatazione che le posizioni protezionistiche sono state spesso assunte dagli stessi paesi protagonisti dei negoziati multilaterali: per il richiamo esercitato dai legami di varia natura, che attraggono, in generale, le nazioni geograficamente vicine; per lo scetticismo diffuso sulla possibilità di concludere e tenere in vita patti con troppi contraenti; per ragioni di strategia contrattuale, che possono suggerire di muoversi su più fronti; per l’affievolirsi del ruolo dei cosiddetti paesi-guida.
Del resto la teoria economica ha offerto buoni argomenti per sostenere anche quelle posizioni: dalla considerazione classica delle industrie nascenti ai contributi più recenti specificamente a favore del regionalismo economico. L’esperienza storica, inoltre, offre esempi significativi di convalida dell’opzione protezionistica; nel secolo scorso, caratterizzato dalla supremazia economica della Gran Bretagna, per la forza delle sue industrie, della sua flotta e della sua rete di intermediazione commerciale, molti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Germania, hanno costruito la loro capacità competitiva al riparo dalla concorrenza britannica con robuste tariffe doganali.
Non desta sorpresa, quindi, che la solidità delle motivazioni che possono indurre ancora oggi molti paesi a scegliere la strada di qualche forma d regionalismo economico (area di libero scambio, unione doganale, mercato unico,ecc.) abbia stimolato alcuni economisti a chiedersi se, per un paese qualsiasi, possa individuarsi un possibile nesso temporale tra una fase regionalista ed una successiva di respiro multilaterale; ci si pone, allora, sul terreno della contrattazione tra blocchi regionali, che può avere una dinamica cooperativa ed antagonistica. Non risulta, tuttavia, definibile un percorso, che possa deterministicamente condurre un paese dal regionalismo al multilateralismo.
Allo stesso tempo è diffusa la consapevolezza che sia difficile pervenire a valide indicazioni di “guida all’azione”, rifacendosi a schemi teorici riguardanti essenzialmente lo scambio di merci senza tentare di arricchirli con l’inserimento, in un unico quadro analitico, dei movimenti di capitale reale e finanziario.
Malgrado questa situazione del lavoro teorico, la ricerca empirica è stata anch’essa attratta dal dibattito in corso ed ha cercato di individuare la presenza e la consistenza relativa delle tendenze sia regionaliste che di integrazione mondiale, avendo, come aree di riferimento principale, i paesi dell’Unione Europea, della Nafta, dell’area asiatica più legata al Giappone. Non si può certo dimenticare la relativa brevità della storia delle istituzioni regionali più importanti, quali appunto, l’Unione europea e la Nafta, che mal si adatta, a valutazioni richiedenti, per loro natura, un orizzonte di lungo periodo; né la difficoltà tecnica di misurare e distinguere processi, come quelli di integrazione regionale e multilaterale strettamente connessi tra loro..
I risultati, riguardanti essenzialmente movimenti di merci e investimenti diretti, non consentono, comunque, di azzardare giudizi sui probabili assetti futuri; tuttavia, essi offrono buoni argomenti ai sostenitori dell’opinione che le forze di attrazione regionale manifestano una vitalità economica integratrice, tale da renderle un ostacolo non irrilevante rispetto all’attuazione di un incisivo disegno multilaterale. Si può allora ripiegare verso un significato di globalizzazione, vista non tanto come una caratteristica ormai acquisita dall’economia mondiale ma piuttosto come un processo manifestatosi recentemente con particolare vigore; forse è questa l’accezione comunemente condivisa e accompagnata, non raramente dall’atteggiamento apologetico nei confronti delle capacità del mercato capitalistico, considerato apportatore di consistenti benefici a tutti i cittadini del mondo, purché i protagonisti di tale mercato siano lasciati liberi di attivarne i meccanismi. E ciò avviene mentre diventano sempre più numerosi gli allarmi, provenienti persino dall’interno delle stesse organizzazioni internazionali, sulla necessità di correggere, in qualche modo, tali meccanismi spesso causa, come suggerito dalla teoria economica, di consistenti “fallimenti” nella realtà concreta.
Proprio nei lunghi anni, durante i quali i negoziatori dell’Uruguay Round cercavano un’intesa, le tendenze regionaliste hanno, infatti, a loro volta, conseguito due obiettivi importanti: l’approvazione, da un lato, del Trattato di Asuncion, che sanciva la nascita del Mercosur e, dall’altro, del Trattato di Maastricht, col quale l’Europa dei quindici rafforzava il suo impegno sovranazionale, in particolare definendo il cammino rigoroso verso l’unificazione monetaria.
L’Unione Europea rappresenta una realtà, la cui originalità storica sta, fra l’altro, nell’acquisizione di un livello di integrazione economica e monetaria, raggiunto tra un numero così elevato di paesi, attraverso procedure democratiche; in più con una perdurante capacità di attrazione nei confronti di molti altri paesi che hanno chiesto di entrare nell’Unione. tale originalità può forse aiutare a comprendere come il processo di integrazione sia riuscito a superare, almeno per ora, e per un futuro non breve, i numerosi e rilevanti ostacoli che, di tanto in tanto, hanno rischiato di farlo naufragare; la convinzione dei responsabili politici di poter contare su un esteso, seppure non unanime, consenso popolare è stata, si può ritenere, determinante per l’evoluzione del progetto dei primi europeisti.
Particolarmente laborioso è stato il cammino verso l’unificazione monetaria; tappa cruciale è stato il Trattato di Maastricht, che ha comportato per i paesi firmatari il rispetto di criteri di gestione monetaria e finanziaria così drastici da essere configurati come propri di un’economia pianificata. Si è espresso in tale scelta il predominio politico e culturale della Germania, con una decisa affermazione dell’autonomia della Banca Centrale Europea e la conseguente enfasi posta sugli obiettivi monetari, come la stabilità dei prezzi, rispetto agli obiettivi reali, come il livello di occupazione. Va riconosciuto, peraltro, che gli orientamenti interventisti hanno ottenuto qualche soddisfazione con la riaffermazione del ruolo dell’Unione su altri aspetti della politica economica: tra questi, politica industriale, sociale, ambientale e regionale.
Evento a noi più vicino è stato il decollo della moneta unica, a partire dal 1° gennaio 1999, con cambi assolutamente fissi tra gli undici paesi aderenti, vincolati, inoltre, da un patto di stabilità per la politica fiscale. Restano da risolvere non pochi problemi istituzionali, riguardanti, in primo luogo, la creazione di poteri controbilancianti, nell’ambito dell’area dell’Unione monetaria. il soverchiante ruolo della Bce nella conduzione della politica economica e, più in generale, a livello di Ue, l’ampliamento delle questioni regolabili con voto di maggioranza, che diventerà ancora più essenziale con l’allargamento ad altri partner. Con la realizzazione dell’Euro, l’Unione europea, seppure attualmente indebolita dalla indisponibilità di Gran Bretagna, Svezia e Danimarca, ha acquisito un fondamentale simbolo di identificazione regionale, le cui potenzialità’ non facilmente prevedibili, potrebbero essere in prospettiva straordinarie, mettendo in discussione, ad esempio, il ruolo del dollaro come principale valuta di riserva mondiale.
Si può in qualche modo intravedere i lineamenti di una situazione in cui grandi aree relativamente indipendenti, economicamente e politicamente, sarebbero in condizioni di esercitare la loro influenza in maniera sostanzialmente simmetrica: ci si troverebbe, in tal caso, nella situazione che viene descritta, da vari studiosi,in termini di struttura multipolare od oligopolistica delle relazioni internazionali.
La mia personale posizione è che sia piuttosto necessario riprendere la categoria di imperialismo per ritagliare, all’interno del mondo uniformato propostoci dagli apologeti della globalizzazione, la presenza differenziata di forze propulsive, dinamiche spesso portatrici di instabilità economica e politica. E, nell’ambito di queste forze, riproporre una visione gerarchica del sistema politico-economico mondiale; così la complessa rete di rapporti internazionali, già ricordata, può essere metaforicamente affidata all’immagine di una piramide, al cui vertice si devono porre, ora, gli Stati Uniti così come, prima della prima guerra mondiale, fu la Gran Bretagna a coprire il ruolo di somma potenza imperiale.
Proprio con riferimento a quel periodo va puntualizzato un aspetto non sempre adeguatamente apprezzato nella letteratura ispirata dalla tematica dell’imperialismo, cioè il controllo sulla politica monetaria: Esso comportava, allora, una chiara situazione di asimmetria, di signoraggio, come usa dire, della Gran Bretagna, che nasceva dalla preminenza del mercato di Londra nel mantenere, col gold standard, la fluidità dei flussi valutari tra paesi debitori e creditori, basandosi sulla sterlina, moneta che finiva, quindi, per svolgere le funzioni di veicolo,intervento,prestito e riserva.
Naturalmente si manifestarono, soprattutto negli ultimi decenni precedenti la prima guerra mondiale, delle forti spinte per modificare quell’assetto piramidale; è la fase storica del nuovo imperialismo, caratterizzata da importanti proiezioni esterne di molti paesi (Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, ecc.), impegnati a costruire un proprio spazio coloniale. E ci sono plausibili argomentazioni per identificare in quelle spinte la preminente causa dello scoppio della prima guerra mondiale.
Ciò non significa riproporre una spiegazione esclusivamente economica dell’imperialismo, insufficiente, come altre spiegazioni monistiche: militari, politiche, etniche, religiose, psicologiche. L’imperialismo economico non ha formulato un percorso analitico virtuoso, perché propone sostanzialmente una sovrapposizione tra imperialismo e colonialismo, in quanto marginalizza, all’interno della trattazione, il fenomeno consistente degli investimenti britannici anche in aree non coloniali; non elabora una trattazione chiaramente distinta, per quanto è possibile, tra investimenti diretti e investimenti di portafoglio, aggregato quest’ultimo rilevante per le cosiddette economie imperiali, a cominciare da quella britannica; sottovaluta le possibilità di conflitto strategico tra capitale finanziario e quello reale; si affida, nel caso degli economisti, seguaci di Marx, agli schemi di riproduzione allargati, basati sulla discussa teoria del valore-lavoro.
Un ulteriore motivo di insoddisfazione riguarda lo scarso peso dato alle funzioni economiche esercitate dalle pubbliche istituzioni, a cominciare dallo stato, delle quali si individuava piuttosto il compito di garantire “legge ed ordine” e non quello, altrettanto cruciale, di sovraintendere agli equilibri del sistema, in primo luogo con l’esercizio della politica monetaria. Ciò, anche se i conti non sempre sono tornati, né per i singoli, perché non sono stati pochi i casi di esperienze economicamente sfortunate: i costi e i benefici economici devono essere misurati attentamente.
Occorre, dunque, ampliare l’orizzonte per includere, nell’analisi, accanto ai soggetti economici già indicati, i soggetti portatori degli indirizzi politici dei singoli stati (parlamenti e soprattutto governi, con il loro apparato amministrativo e repressivo).Questi soggetti possono realizzare la sintesi tra gli interessi più strettamente economici e quelli di altra natura (sociale, religiosa, militare, psicologica, ecc.) dei cittadini del proprio paese; interpretare, in un certo senso, la loro way of life e operare di conseguenza per creare le condizioni ambientali perché essa possa essere diffusa e consolidata, se ne esistono le condizioni, anche al di là delle frontiere nazionali. Disegno del tutto spiegabile, ma certamente discutibile, in grado di suscitare adesioni ma anche conflittualità radicali; l’esistenza di tale disegno è requisito fondamentale di una linea di comportamento, di forze sia sociali che statuali, configurabile come imperialista.
Gli imperialismi, dunque, o più eufemisticamente le way of life, possono anche essere più di uno, magari collocati temporaneamente in una posizione diversa rispetto al vertice della piramide, ma con l’aspirazione a modificare l’esistente struttura gerarchica: di qui una potenziale forza squilibrante, non sempre pacificamente comprimibile come risultò all’inizio del ventesimo secolo, quando le tensioni tra i paesi imperialisti ebbero lo sbocco della prima guerra mondiale.
Conseguentemente, piuttosto che procedere in termini di struttura multipolare, si tratta di verificare l’applicabilità, anche alla fase attuale, della metafora della piramide: ciò significa valutare, con l’ausilio della documentazione empirica, la possibilità di individuare un ordine gerarchico partendo dal vertice. E, in proposito, sarebbe facile l’attribuzione del vertice agli Stati Uniti, quando si prende in considerazione, accanto agli agenti ricordati (multinazionali, intermediari finanziari, speculatori, ecc.) la componente extra-economica dell’imperialismo; ha scritto Haas, recentemente ( The reluctant sheriff. The United States after the Cold War, New York, 1997):
“la politica estera statunitense ha per obiettivo di impegnarsi, con attori che condividono le stesse idee, a “migliorare” il funzionamento del mercato e a consolidare il rispetto delle sue regole fondamentali. Spontaneamente, se possibile, con la costrizione, se necessario. In ultima istanza, la regolazione del commercio internazionale è una dottrina imperiale, in quanto tenta di promuovere un insieme di norme alle quali aderiamo. Cosa da non confondere con l’imperialismo che non è altro che una politica estera di sfruttamento “.
In effetti, non serve introdurre necessariamente il concetto di sfruttamento; per parlare di imperialismo capitalistico è sufficiente la prima parte di questa proposizione. D’altra parte, al di là delle valutazioni politiche che, in molti casi, possono determinare scelte errate dal punto di vista economico, esistono solide basi teoriche e valide esperienze storiche a convalidare la realizzazioni di accordi di integrazione regionale, consapevolmente contraddistinti, almeno per una certa fase storica, da un certo grado di protezionismo.
La loro portata può essere molto varia, ma l’esempio più emblematico è rappresentato dalle unioni doganali, che continuano a sorgere anche mentre la prospettiva multilaterale registra il successo dell’Uruguay Round; nulla autorizza ancora a pensare che la dialettica tra globalismo ( o multilateralismo) e regionalismo sia stata definitivamente risolta.
Certo, tenendo in mente il quadro complessivo di quelli che sono stati definiti i protagonisti, sia privati che pubblici, sulla scena dell’economia internazionale, non si può negare la sopravvivenza del disegno globalizzatore, nella loro strategia e in alcuni risultati concreti; se tale quadrodovesse essere, invece, considerato l’avvenuta realizzazione di un insieme di meccanismi già operanti, in maniera ormai quasi irrefrenabile, a livello mondiale, come l’uso indifferenziato del termine globalizzazione tende a suggerire, si tratterebbe di una valutazione perlomeno prematura.
L’attuale impasto, nel quale coesistono, sul piano economico, componenti anarchiche, di non lieve spessore, con forze regolatrici, sia pure deboli o conniventi degli organismi nazionali e sovranazionali, che perseguono, tuttavia, assetti non facilmente armonizzabili tra loro, non è d’altra parte, configurabile in modo convincente neanche come un sicuro cammino verso la globalizzazione.
Quale possa essere il prodotto, magari più stabile, che emergerà dal continuo rimaneggiamento di tale impasto non è facilmente prevedibile, e l’esperienza suggerisce di resistere alla tentazione di azzardare la definizione di scenari futuri. In un suo intervento alla Royal Statistical Society all’inizio del 1914, Paish, studioso di primo ordine degli invetimenti internazionali della Gran Bretagna, diceva: “Le cifre mostrano che i due paesi poterbbero divenire ricchi insieme, e che la crescete prosperità della Germania non ha significato minore, ma maggiore prosperità per l’Inghilterra; e che esattamente allo stesso modo la crescita della prosperità dell’Inghilterra ha comportato maggiore e non minore ricchezza pe la Germania: Una volta che il mondo abbia compreso che tutti potremmo crescere prosperi insieme, allora le rivalità internazionali, che a volte hanno per sbocco la guerra, poterbbero più verosimilmente sparire”.
Sappiamo come le cose siano andate a finire allora, quando la prima cosiddetta globalizzazione si è arrestata con la prima guerra mondiale; per la verità, anche la fase immediatamente successiva, quella della globalizzazione smarrita si è conclusa, all’inizio degli anni quaranta, con un altro conflitto mondiale. C’è da sperare che l’attuale fase possa avere soluzioni diverse.