Gli USA tra Black Panthers e apartheid

Siamo nel 2007, in un mondo dove poche pseudo-democrazie vanno a fare crociate per imporre il loro modello economico con la scusa d’importare la democrazia, una democrazia che di fatto non esiste. Ancora una storia da vecchio sud vede protagonisti i democratici Stati Uniti d’America, raccontata da un articolo uscito la scorsa settimana su Le Monde e definita con un ironico doppio senso “una storia in bianco e nero”, perché riguarda il razzismo, appunto, dei bianchi verso i neri, e perchè l’autrice dell’articolo la racconta come una vicenda che riguarda i demoni del passato, un passato che però a nostro giudizio è sempre presente, che non è mai cambiato per i neri d’America.

Parliamo del liceo di Jena, cittadina della Louisiana in cui da sempre la popolazione di pelle nera subisce discriminazioni di ogni sorta. In questo liceo i ragazzi di colore da sempre sono costretti a pranzare lontano dai loro compagni di pelle chiara, finché un alunno nell’agosto 2006 non osa porre la questione di poter sedersi, come gli altri, all’ombra di un albero. Il giorno seguente, tre corde pendono come segno di monito dai rami dell’albero. Il direttore del liceo ovviamente non punisce adeguatamente i responsabili, comminando appena 3 giorni di sospensione, provocando in risposta una piccola manifestazione degli studenti neri sotto l’albero in questione, redarguita dalle minacce dei poliziotti, i quali si lasciano scappare il commento che i manifestanti la pagheranno molto cara.

Il 30 novembre un ragazzo bianco punta un fucile contro 3 ragazzi neri: il bianco viene disarmato ed i neri arrestati. L’ennesima provocazione è sempre da parte di uno studente bianco, che punta il dito medio contro dei ragazzi di colore scatenando una rissa che lo manda all’ospedale: sei ragazzi neri vengono arrestati, espulsi dalla scuola e processati davanti ad un procuratore bianco, un giudice bianco e 17 testimoni bianchi.

Sono difesi da un avvocato nero, d’ufficio, che non interroga neanche gli accusati, non chiama testimoni, non parla né del razzismo né mette in luce i buoni risultati scolastici e sportivi degli accusati. Il 31 ci sarà la sentenza e per il maggior accusato, Michael Bell, ritenuto colpevole di colpi e percosse e addirittura di complotto, il capo d’accusa prevede 22 anni di prigione.

Si può comprendere allora la risposta rabbiosa di chi, vedendo che il governo non tutela i diritti di tutti e non fa niente per salvaguardare le minoranze dal razzismo, si fa giustizia da solo.

Nell’ottobre 2006 si è celebrato il quarantesimo anniversario della fondazione del Black Panthers, originariamente chiamato il “Black Panther Party for Self-defense”. Un anniversario celebrato in sordina, testimonianza che la distruzione del Partito da parte del potere negli Stati Uniti non ha soltanto annientato la struttura dell’organizzazione e i suoi militanti, ma ha anche lavorato per cancellare la loro memoria e il loro contributo storico, negando alle generazioni future la possibilità di giudicare da sé stesse cosa in realtà abbiano rappresentato.

Il Partito nacque a Oakland, in California, nel 1966, per volontà di due studenti del Merritt College, una piccola università pubblica i cui iscritti erano in maggioranza afroamericani.Huey Newton e Bobby Seale ne sono i fondatori. Figli di famiglie provenienti dal profondo Sud degli Stati Uniti, immigrate in California nel tentativo di migliorare la loro situazione economica. Tutti e due avevano conosciuto in prima persona il regno del terrore che opprimeva gli afroamericani in quella parte del Paese. Le speranze che avevano spinto le loro famiglie a emigrare erano rimaste inappagate; le riforme ottenute dal movimento di protesta per i diritti civili non avevano fondamentalmente cambiato la vita degli afroamericani.

Inoltre, la guerra in Vietnam chiedeva alla comunità afroamericana di sacrificare i propri figli per combattere in una guerra da loro non voluta. Anche oggi la situazione non è cambiata, con i marines che vanno a fare adepti in giro per le periferie popolate da persone di colore, vendendo possibilità di una vita piena di privilegi ed aspettative, quei privilegi che lo stesso governo statunitense volutamente nega ai neri e ai poveri per metterli in condizione di accettare il sacrificio della propria vita in cambio di una serie di possibilità che solo in quel caso diventano accessibili.

Ma ritorniamo alle Pantere. L’idea fondante del Partito era semplice quanto geniale: la priorità in Oakland era quella di proteggere la comunità dalla brutalità delle forze dell’ordine locali. Per questo le prime azioni pubbliche dei Black Panthers furono di seguire a distanza ravvicinata le auto della polizia, di osservare e, a volte, di intervenire quando un afroamericano veniva fermato. La prima “scoperta” di Newton, che studiava legge, fu infatti che nello stato della California era consentito girare armati per “legittima difesa”, e che in macchina un cittadino poteva liberamente portare una pistola con un colpo in canna .Ma soprattutto che il codice garantiva a tutti, anche in caso di arresto, una vastissima gamma di diritti . Solo che, nel caso dei neri, questi diritti venivano quasi sistematicamente violati, anche a causa della naturale abitudine dei poliziotti bianchi a trattare i neri non come cittadini dell’ America, ma di una colonia chiamata ghetto.

Il programma, il decalogo del partito era semplice e comprensibile da tutti, e recitava:”In primo luogo vogliamo libertà, vogliamo essere in grado di condizionare il destino delle nostre comunità nere. Secondo : vogliamo il pieno impegno per la nostra gente. Terzo : vogliamo case degne di esseri umani .Quarto : vogliamo che tutti i neri di sesso maschile siano esentati del servizio militare. Quinto :vogliamo un’ istruzione come si deve per i nostri neri, in seno alle nostre comunità, tale da svelarci la vera natura della società decadente e razzista in cui viviamo, e che indichi ai nostri fratelli e sorelle qual è il loro posto nella società perché se lo ignorano non c’è nulla su cui possiamo contare.

Sesto : vogliamo che sia messo l’alt ai latrocini esercitati dagli imprenditori bianchi razzisti a spese dei neri nelle comunità nere. Settimo : vogliamo che si ponga immediatamente fine alle brutalità e agli assassini di neri da parte della polizia. Ottavo : vogliamo che tutti i neri detenuti nelle carceri siano rilasciati perché non hanno avuto un equo processo, dal momento che sono stati condannati da giurie composte esclusivamente di bianchi, ciò che costituisce l’esatto equivalente di quanto accadeva nella Germania nazista agli ebrei. Nono : vogliamo che i neri, se devono essere processati, lo siano da gente come loro, intendendo individui che hanno la stessa estrazione economica, sociale, religiosa, storica e razziale. Decimo, e per riassumere : vogliamo terra, vogliamo pane, vogliamo case, vogliamo di che coprirci, vogliamo giustizia e vogliamo pace.

Inizialmente le uniche armi utilizzate erano una copia della Costituzione e una copia del codice penale dello stato della California, in seguito i membri di queste ‘pattuglie’, così come permette il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, iniziarono a portare armi con sé. La convinzione del Partito era che gli afroamericani avevano il diritto di difendersi contro il regime di terrore imposto dalla polizia. I Black Panthers non si sono limitati a diffondere i dieci punti del loro manifesto ma li hanno messi in pratica servendo la prima colazione ai bambini delle loro comunità, aprendo scuole e cliniche alternative.

Dall’anno della loro fondazione i Black Panters hanno rappresentato nell’immaginario degli afroamericani la possibilità di resistere, d’intaccare il potere dell’unica istituzione – le forze dell’ordine – con cui tutti gli afroamericani venivano a contatto, e che spesso terminava con la detenzione e con i pestaggi, per i più fortunati, se non con la morte. Questo potente richiamo alla ribellione ha fatto sì che in pochi anni i Black Panthers si trasformassero in un partito con sedi in quarantotto stati, capace di vendere 400.000 copie alla settimana del loro giornale, e in cui militavano circa 30.000 persone con un’età media di 17 anni.

L’irrompere sullo scenario nazionale dei Black Panthers è stato determinante anche per i bianchi, che militavano nel movimento contro la guerra in Vietnam, la maggior parte dei quali non aveva legami politici con gli afroamericani o con le loro organizzazioni. Ad esempio, l’occupazione della Columbia University di New York da parte degli “Students for a Democratic Society”, la più grande organizzazione contro la guerra, che non solo chiedeva la cessazione immediata delle ostilità, ma voleva, e in parte ha ottenuto, che l’Università non costruisse una palestra che avrebbe cambiato in modo significativo l’urbanistica di Harlem, a scapito dei suoi residenti storici. Questa occupazione avvenne con il coinvolgimento dei “Black Panthers e degli Young Lords”, l’organizzazione radicale dei giovani portoricani

In quegli anni la crescita del movimento contro la guerra non si è limitata al livello della partecipazione. Nella sua ala radicale si è sviluppata un’analisi del potere degli Stati Uniti che includeva una discussione sul ruolo delle forze dell’ordine come esercito di occupazione interna al Paese, sul ruolo dell’Fbi nella repressione dei movimenti , sulla centralità della questione afroamericana e della lotta contro la supremazia dei bianchi, sulla possibilità di costruire relazioni di solidarietà con le nazionalità presenti all’interno degli Stati Uniti e sulla necessità di trasformare un movimento di protesta in un movimento rivoluzionario.

I Black Panthers hanno dato un contributo fondamentale a questa evoluzione, come indispensabile è stata la loro leadership ideologica nelle oltre 100 rivolte che sono avvenute nelle carceri americane nello stesso periodo. Ma l’assassinio del giovane leader dei Black Panthers, Fred Hampton, insieme a Mark Clark, da parte della polizia di Chicago e dell’Fbi mentre dormiva nel suo appartamento, il 4 dicembre 1969, ha confermato a tutta una generazione che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato o permesso alcun cambiamento politico, sociale, economico. Questa nozione è stata rafforzata nei mesi seguenti quando, nell’inverno del 1970, l’ala cattolica del movimento ha rilasciato ai media documenti segreti dell’Fbi che illustravano il piano di J. Edgar Hoover di “neutralizzare” i Black Panthers e ogni organizzazione che potenzialmente rappresentava una minaccia per il potere degli Stati Uniti.

E infatti ben presto il partito subì delle scissioni, molti furono arrestati, altri uccisi, l’altro storico padre del movimento, il californiano Elridge Cleaver, fuggì in Algeria mentre Newton era in prigione; dopo il 1971 le uniche città dove il partito mantenne un minimo di organizzazione erano Chicago, Washington ed Oakland. I due fondatori del partito cercarono di rifarsi una verginità politica: Bobby Seale candidandosi a sindaco di Oakland, Newton scrivendo dalla sua prigione dorata in un grattacielo nella zona residenziale della città.

E da allora continua indisturbata la violenza che porta ad episodi come il pestaggio da parte dei poliziotti ad un uomo di colore, Rodney King, avvenuto nel 1992 e ripreso dalle telecamere, che provoca la reazione dei cittadini di Los Angeles. Nata come rabbiosa reazione all’ennesima violenza razzista da parte della polizia, la rivolta si trasforma in presa di coscienza da parte dell’intera realtà proletaria dei ghetti, che manifesta nell’attacco ad obbiettivi considerati non solo simbolo della cultura razzista, ma più in generale dell’istituzione capitalistico-borghese. La rivolta viene repressa e quindi si spegne, ma la violenza, verbale e fisica contro le persone di colore continua.

Passando per la tragedia dell’uragano abbattutosi su New Orleans nel 2005, che ha visto coinvolta un’area abitata per il 98% da famiglie di colore, la maggior parte delle quali viveva sotto la soglia della povertà, in occasione della quale il governo statunitense non si è preoccupato di fornire adeguati aiuti e sovvenzioni per la ricostruzione delle abitazioni, fino ad arrivare ad episodi di odio razziale come quello della scuola di Jena, il sogno di Martin Luther King non può si può dire essersi avverato .

Ancora oggi la bandiera a stelle e strisce che pretende di sventolare la sua presunta libertà dall’altra parte del mondo nega in patria molti dei diritti fondamentali ad una parte dei cittadini che in passato hanno contribuito più degli altri , ossia con il sudore delle proprie fronti e con la forza delle proprie braccia incatenate, a fare degli Stati Uniti quell’impero economico e politico che sono oggi.