Gli USA nel pantano Iraq: le cifre di un disastro

Se i cittadini statunitensi avessero dovuto pagarla di tasca propria, versando direttamente al Pentagono i soldi, avrebbero dovuto sborsare 727 dollari a testa. Se invece la paragoniamo alla guerra che ancora disturba il sonno di tanti veterani, quella del Vietnam, scopriremo che occupare l’Iraq è costato 5,6 miliardi di dollari all’anno. Usando di nuovo come metro di paragone l’unica sconfitta militare nordamericana, verifichiamo che allora il costo medio degli 8 anni di guerra fu di 5,1 miliardi (in dollari di oggi).
Questi sono solo due dati economici di un rapporto di 98 pagine pubblicato dall’Institute for policy studies (Ips), un think tank con base a Washington che ha raccolto dati relativi ai costi di ogni genere dell’assurda avventura irachena voluta dal presidente Bush. Morti e feriti, spese sopportate, costi sociali e per la sicurezza tutto diviso in capitoli ricchi di numeri e delle fonti dalle quali sono attinti. Tra i risultati nuovi contenuti nella ricerca quello relativo al costo delle operazioni in Iraq nel periodo che va dalle elezioni del 30 gennaio a oggi. Il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato che con quel passaggio cruciale si sarebbe cominciato a spendere molto meno e a ridurre il contingente, ma nel rapporto si dimostra che le spese per il bilancio federale Usa sono invece aumentate – che il numero di soldati americani uccisi fosse aumentato lo si sapeva già. Se la presenza americana continua ad essere quella odierna, in Iraq e Afghanistan, «il deficit del bilancio federale raddoppierebbe in dieci anni».

Non tutti gli elettori americani avranno letto questo lavoro attento, ma la sensazione che la guerra in Iraq sia un disastro, ormai ce l’hanno anche loro. Nei sondaggi pubblicati ieri dal Washington post e dall’emittente Abc (che seguiva di un solo giorno una ricerca analoga di Cnn, Usa Today e Gallup), il presidente Bush e la sua amministrazione sono ai minimi del consenso. A rendere negativo il giudizio dei cittadini statunitensi c’è proprio la preoccupazione per la guerra in Iraq, seguita dal costante aumento del prezzo della benzina. Il risultato per George W. è che il tasso di approvazione del suo operato è il più basso mai registrato fino ad oggi: 45 per cento. I favorevoli alla guerra sono rimasi in pochi, 42 per cento, mentre coloro che credono che si sarebbe potuto fare qualcosa per il prezzo della benzina sono il 60 per cento. Strano destino quello di un presidente ce fa la guerra per il petrolio e si trova a essere impopolare proprio a causa del rialzo dei prezzi. L’unico punto su cui la condotta del presidente viene approvata è la lotta al terrorismo, e qui forse paga la ripetitività delle parole d’ordine.

Tornando al “Pantano iracheno”, così si chiama il rapporto dell’Ips, guardiamo a quelli che nel capitolo che ne parla vengono definiti «costi per gli Stati Uniti». I morti sono 2060, i feriti 14.065, mentre i giornalisti (in questo caso tutti, non solo statunitensi) sono 66, già tre in più che durante tutta la guerra che terminò con gli elicotteri che caricavano il personale sul tetto dell’ambasciata di Saigon. Interessante un dato di cui da noi si discute poco, ma che negli Usa preoccupa: i riservisti richiamati sono fino a oggi 48mila, in larga parte si tratta di personale della polizia, dei pompieri o di altri corpi destinati alla protezione civile. In alcuni stati c’è la preoccupazione che in caso di catastrofi naturali non ci sia abbastanza personale per gestire la situazione.

Passando alla società devastata dalla guerra, e sorvolando sui 100mila morti a causa della guerra (la stima è del giornale di medicina britannico the Lancet e fa riferimento alle vittime all’ottobre 2004), si può notare un’impennata dei morti a causa di crimini: 8mila nel 2004 e 1100 solo nel luglio 2005. Le persone «che vivono con problemi di salute cronici direttamente causati dalla guerra sono 223mila e sono specialmente donne, bambini, anziani e disabili», si legge ancora nel rapporto di Ips. Guardando all’economia, invece, si ricorda come la produzione di petrolio non sia ancora tornata ai livelli degli ultimi mesi che precedettero la caduta di Saddam Hussein – molto al di sotto del potenziale iracheno. La vita quotidiana degli iracheni si mostra un disastro anche a partire dai dati su elettricità, produzione, salute. Come dimostra la tragedia di ieri a Baghdad, lo spettro peggiore resta quello degli attentati. Anche in questo caso il bilancio è negativo: 50 attacchi al giorno nei primi cinque mesi del 2005 contro 20 nel 2003. Anche l’ambiente vuole la sua parte, e allora sappiate che si calcola le fogne non ci sono più e che i residuati bellici inesplosi (mine e bombe) potrebbero essere 12 milioni.

I costi per il mondo sono quelli relativi alla pace, al ruolo delle Nazioni Unite, alle risorse buttate per pagare armi e soldati che non sono finite altrove (sviluppo, ambiente), ma queste valutazioni sono politiche. Sono comunque i numeri a far parlare di pantano e a spingere gli autori del rapporto dell’Ips a parlare di nuovo Vietnam. A quasi due anni e mezzo dall’inizio della guerra anche gli americani si cominciano a rendere conto di quanto questa sia stata un disastro. Anche per loro.