«Non sappiamo ancora esattamente quale sarà il nuovo cammino, ma certamente lo imboccheremo frenando». E la frenata ci sarà sul commercio e l’apertura delle frontiere, secondo Lori Wallach, direttore di Global Trade Watch creato nel ’95 nella galassia di Ralph Nader, il veterano di tante battaglie populiste. La Wallach, una fotogenica trade lawyer, è stata catapultata a un ruolo nazionale.
E tutto grazie ai 36 fair traders democratici che soprattutto alla Camera (29) e al Senato (7) hanno sostituito altrettanti free traders repubblicani. Su un totale di 50 nuovi ingressi, 41 deputati e 9 senatori. L’idea dei mercati aperti disturba ormai l’americano medio che vede crescere il Pil nazionale, salito pro capite di quasi l’80% dal 1973 in termini reali, e non la paga oraria media, aumentata soltanto del 15% scarso. E dà la colpa alla concorrenza unfair.
«Dal New England all’Ohio alle Hawaii e a tutto ciò che sta in mezzo, i
risultati delle elezioni di metà mandato hanno rivelato una crescente realtà di candidati che vincono invocando alternative positive per i lavoratori americani… rigettando l’avanzata dello status quo e del modello Nafta-Wto», dichiara Global Trade Watch. E non è molto rispetto a quanto ogni sera, nel programma più seguito della Cnn, proclama dal video Lou Dobbs in «Lou Dobbs tonight», con «avidi aministratori delegati», che «mettono le classi medie in diretta competizione con il malpagato lavoro straniero senza riguardo per le
conseguenze sociali». Non è solo retorica. Una buona quota dell’elettorato americano ha sottoscritto.
«C’è una tremenda reazione contro la liberalizzazione del commercio», ha dichiarato a metà novembre l’ex ministro del Tesoro Robert Rubin, parlando a un gruppo di banchieri internazionali a Hong Kong. «Ed è uno dei pericoli maggiori con i quali l’economia globale deve fare i conti». Rubin, padre della “Rubinomics”, ebbe come consigliere economico di Bill Clinton prima e come ministro del Tesoro poi un ruolo fondamentale nello stoppare le spinte protezionistiche. Proprio negli anni di Clinton, e poco prima, si rovesciava infatti un trend più che secolare che aveva visto protezionisti i repubblicani e liberoscambisti i democratici. Dal 2001 sono stati cancellati oltre 3 milioni di posti di lavoro industriali. Le ultime massicce liquidazioni di impianti e posti di lavoro da parte di Gm, ma anche di Ford, segnano dopo 50 anni l’inesorabile uscita dalla classe media di ceti operai che lasciano un lavoro da 20 dollari l’ora per trovarne uno da dieci, quando va bene. Mentre Toyota, che ha sette impianti nordamericani, è ormai il primo produttore. Al voto di inizio novembre hanno stravinto numerosi candidati come Sherrod Brown, neo senatore per l’Ohio, dove sono stati persi 200mila posti di lavoro industriali dal 2001 a oggi, e che ha fatto campagna e vinto solo sul fair trade. Brown è autore di Myths of free trade: why american trade policy has failed. Fa il paio con Take this job and ship it, titolo ancora più esplicito del senatore Byron Dorgan, democratico del North Dakota. James Webb ha strappato sul filo di lana un seggio senatoriale per la Virginia promettendo che si concenterrà sulla economic fairness in un Paese troppo diviso da distinzioni di classe nell’era della globalizzazione e dell’internazionalizzazione della corporation americana». Bruce Barley ha vinto in Iowa incolpando per la perdita di posti di lavoro nello Stato «gli ingiusti accordi commerciali» del Governo Bush.Molti candidati democratici hanno applicato la lezione suggerita da Bernie Sanders del Vermont, indipendente, che già nel 2004 vinse in 47 dei 48 seggi dove, per le contemporanee presidenziali, Bush batteva John Kerry. L’arma vincente fu ed è stato anche ora il populismo economico, cioè la difesa dei piccoli contro gli interessi dei grossi gruppi globali, che scavalcano ormai il lavoratore americano. Ora Sanders, che ha un voto pieno di 100 punti dal sindacato Afl-Cio come difensore dei lavoratori (sindacalizzati), ha vinto con il 65% dei voti il seggio senatoriale in palio, e sarà il primo politico americano a definirsi ufficialmente socialista a entrare in Senato.
L’altro apripista è stato Dick Gephardt, per 28 anni deputato del Missouri, candidato nel 2004 alle presidenziali e battuto per la nomination democratica da Kerry. Prima sostenitore delle liberalizzazioni reaganiane, poi sempre più populista e critico degli eccessi del libero commercio internazionale, Gephardt può essere considerato con Ross Perot (candidato indipendente alle presidenziali del ’92 e causa prima della sconfitta di Bush senior), il padre del ritorno al protezionismo. Kerry ne accolse in parte la piattaforma, promettendo nei primi 120 giorni, se eletto, una revisione di tutti i trattati commerciali.
Era uno strappo nella tradizione avviata nel ’34 con il Reciprocal trade
agreements act dal presidente Franklin D. Roosevelt. Incominciava allora il calo delle tariffe volute dai repubblicani ormai da 80 anni e che solo con il democratico Woodrow Wilson erano state temporaneamente ridotte. Kennedy e Johnson furono liberoscambisti nella stessa tradizione, poi con Reagan furono i repubblicani a diventarlo e, a fine anni 80, la sirena del protezionismo incominciò a diventare democratica.
Il Congresso è sempre stato arcigno in tema di commercio. Le armi
protezionistiche, in particolare le sezioni 201 e 301 della Trade law usate nelle azioni antidumping e di accesso al mercato, sono pronte. È scontato che la Tpa concessa a Bush nel 2002 (Trade promotion authority, cioè il nuovo fast track che demanda all’Esecutivo e prevede l’approvazione o bocciatura in blocco degli accordi commerciali) non verrà rinnovata nel 2007. Approvata nel 2001 con un solo voto di scarto, fu votata per Bush l’anno dopo con tre soli voti. Il guaio è che la maggioranza, anche nel Congresso repubblicano difficile, oggi non c’è più. Washington ha mandato Bush ad Hanoi a metà novembre bocciando il rinnovo del commercio con quel Paese. Altri trattati bilaterali e regionali, con Perù e Colombia ad esempio, sono ora fortemente a rischio.
Nei nuovi arrivi democratici alla Camera, soprattutto, il New York Times ha identificato «un forte filone di populismo economico che ne rappresenta la forza unificante». Tonificato, Charles Rangel di New York, veterano di 35 anni alla Camera e probabile presidente dell’importante Ways and Means Committee, ha già chiesto alla Casa Bianca di essere più severa con la Cina. Al Congresso ci sono pronte 27 proposte di legge anti-Cina del 2005-2006. «Ora che i democratici controllano il Congresso, i cinesi lasceranno che la loro moneta si apprezzi più in fretta», dice Ed Yardeni, capo stratega alla Oak associates di Akron, Ohio, gestore di fondi, e convinto che, ormai al comando in Congresso, i democratici «potrebbero moderare le loro minacce protezioniste dovendo agire in maniera più responsabile». Una previsione o un augurio? Rubin, un pragmatico prima di tutto, ha detto recentemente che la nuova ineguaglianza economica «èun fatto della realtà americana di profondo disturbo », una minaccia sia per il commercio che per la stabilità «della società democratica e capitalista». Visto il successo dei fair traders, e poiché la partita si chiuderà solo dopo le presidenziali del 2008, aspettarsi due anni di America partner difficile non è azzardato.