È arrivata a Pechino da Washington la più vasta delegazione economica nella storia delle relazioni tra i 2 paesi. La visita è guidata da Henry Paulson, Treasury Secretary, con il seguito di altri 5 Ministri e del Capo della Federal Riserve, Paul Bernanke. Una rappresentanza prestigiosa per obiettivi ambiziosi; partecipa infatti alla prima riunione dello «strategic economic dialogue mechanism» deciso dai 2 governi. Al di là delle dichiarazioni di rito, che confermano «l’ampio dialogo con la Cina», la missione statunitense è densa di ostacoli e incognite. Senza dubbio sono numerosi i temi, anche solamente economici, nei quali i 2 paesi hanno interessi divergenti. Non ha aiutato ad allentare la tensione la pubblicazione, il 12 dicembre, del Rapporto del ministro del commercio Susan Schwab (anch’essa nella delegazione) al Congresso Statunitense. Dopo 5 anni dall’ingresso della Cina nel Wto (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) il documento lancia delle accuse ufficiali e circostanziate. Il Regno di Mezzo non avrebbe adempiuto ai suoi impegni, non aprendo la propria economia ai prodotti degli altri paesi. Nel rapporto si lamenta che i servizi finanziari trovano ostacoli alla vendita, che le merci statunitensi vengono contraffatte, che i responsabili non vengono perseguiti, che la violazione della proprietà intellettuale (software, video, design) prosegue e si diffonde. Pur riconoscendo i progressi della Cina il documento getta ombre inequivocabili sul futuro: l’amministrazione Bush continuerà ad usare «un approccio su 2 binari» e dunque «non esiterà ad usare tutti gli strumenti disponibili garantiti dal Wto». Una seconda e probabilmente più importante fonte di attrito riguarderà il tasso di cambio dello yuan (rmb) con il dollaro. La Casa Bianca lamenta uno spettacolare deficit commerciale nei confronti della Cina, che ha superato nel 2005 i 200 miliardi di dollari. Il basso corso del rmb, che le autorità di Pechino non vogliono adeguatamente rivalutare, rende le merci cinesi inattaccabili dalla concorrenza internazionale ed invade i mercati dei paesi industrializzati. L’animosità di Washington deve molto alla politica interna. La nuova maggioranza democratica, per molti versi più severa rispetto alla Cina, promette sanzioni più dure e compito dei negoziatori è non farsi riconoscere deboli. Il loro impegno è tuttavia arduo, perché le connessioni tra le 2 economie sono ormai inestricabili ed ogni variazioni unilaterale ha ripercussioni sull’altra sponda del Pacifico. La Cina svolge un ruolo fondamentale nei «twin deficit» statunitensi; non solo quello commerciale, ma anche quello federale. È il paese che detiene il più alto valore di riserve a mondo e gli impieghi sono principalmente in dollari. La Cina acquista Treasury Bond e sostiene la spesa pubblica di Washington, mantenendo bassi il tasso di interesse e l’inflazione. Paul Bernanke è grato alla Cina per la sua funzione stabilizzatrice. Molto meno lo è Susan Schwab, perché sa che il deficit commerciale è lo strumento per finanziare quello federale. I miliardi di dollari che acquistano i prodotti cinesi tornano negli Stati Uniti per la gioia dei consumatori e degli elettori, a scapito degli esportatori e delle fabbriche che sono costrette a chiudere. La Cina dunque è in posizione di forza relativa: può continuare a crescere infliggendo perdite ancora tollerate dagli Usa. Ecco perché una situazione di progressivo riallineamento, non una secca svalutazione, è la soluzione praticata dalle autorità di Pechino dal luglio 2005. Il consenso tacito di Washington si ha perché Pechino continua a comprare dollari (finanziando dunque il deficit federale) pur se il rmb è sottovalutato. Questo «sacrificio» di Pechino è riconosciuto ma non è garantito per il futuro. Per ora ne traggono vantaggio negli Usa soprattutto le multinazionali. In realtà l’invasione di merci cinesi ha una genesi statunitense. Più del 60% di quanto esportato dalla Cina proviene dagli investimenti delle aziende che hanno delocalizzato oltre la Grande Muraglia. Si offrono ai consumatori, siano essi della middle class o delle minoranze delle città, prodotti economici e qualità accettabile. Contemporaneamente la grande distribuzione e le aziende fanno affari d’oro. Laddove la Cina decidesse di diversificare l’impiego delle sue riserve, acquistando dollari in quantità minore, gli effetti negli Stati Uniti sarebbero ben più gravi, con un aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse che penalizzerebbe investimenti e consumi. Le economie di Usa e Cina sono più connesse dei loro sistemi politici e culturali. La globalizzazione costringe alla trattativa paesi forse ostili ma non più nemici. La potenza degli Usanon permette una gara tra contendenti uguali, ma neanche decisioni unilaterali. Questa è la prima vittoria della Cina: riconoscere che l’unica superpotenza trova limiti nella muraglia e che anche una decisione tecnico-economica, come la rivalutazione del rmb, viene decisa nella Città Proibita e senza seguire pressioni esterne.