Gli stipendi degli italiani valgono sempre meno

Nella classifica dell’Ocse le retribuzioni degli italiani precipitano al 23esimo posto tra i trenta Paesi industrializzati. Eravamo al 19esimo nel 2004 e già allora apprenderlo destò allarme. Oggi siamo in coda, prima di noi, tra gli altri, tutti i
«cugini» europei ai quali il Belpaese viene confrontato quando, ad esempio, si parla di costo del lavoro o di inflazione. Per avere un’idea basti pensare che nella media dei trenta paesi Ocse i nostri stipendi sono più bassi del 12,4% e che la forbice si allarga se si prende la media dell’Europa a 15: abbiamo il 18,7% in meno.
Dietro di noi il Portogallo, (24esimo) la Turchia (25) la Repubblica Ceca (26) Polonia (27) Messico (28) Slovacchia (29) Ungheria (30). Da notare che questi sette paesi sono più o meno rimasti al loro posto rispetto al 2004, a muoversi, peggiorando, è stata l’Italia. Davvero non c’è da stare allegri. Il resto del mondo ci guarda dall’alto, comprese Spagna e Grecia. Lo fa soprattutto la Corea che ha decisamente messo il turbo, è passata dal decimo posto del 2004 al primo nel 2005 e ci sovrasta con le sue retribuzioni superiori alle nostre del 42,1%. A latitudini più vicine, non se la passano male neanche gli inglesi, secondi in classifica con buste paga il 42% più pesanti delle italiane.
I dati sembrerebbero in contraddizione con quelli che sempre l’Ocse ha diffuso nei giorni scorsi e che sono parte dello stesso rapporto. Parlando di salari lordi l’Ocse ha contato che in Italia nel 2005 sono aumentati del 3,2% contro una crescita del 3,9% nell’area dell’Ocse, del 3,3% nell’Ue a 15 e del 3,9% nell’Ue a 19. Il punto è che queste sono retribuzioni lorde, che non solo non tengono conto dell’inflazione, ma neanche del fisco.
Il crollo dei salari netti che ci vede al 23esimo posto si ricava infatti da una tabella del rapporto sui prelievi fiscali sugli stipendi. È stata presa in considerazione «la media annuale delle retribuzioni per una persona single senza figli». I salari, calcolati sia al lordo che al netto, vengono espressi in dollari e attraverso il sistema PPP, sigla che sta per purchasing power parity, diventa possibile valutare i cambi delle diverse monete a parità di potere d’acquisto. Cambiando dunque i dollari in euro risulta che un lavoratore italiano si ritrova a fine anno con 16.242 euro netti, la media è di 1.350 euro al mese tredicesima compresa. Al sedicesimo posto, un francese guadagna 19.731 euro cioè il 17,6% in più: la Francia ci ha superato rispetto all’anno prima quando era al 21esimo posto. La differenza tra gli stipendi italiani e quelli tedeschi è del 23,5% sebbene anche la Germania abbia perso ben cinque posizioni passando dal quarto al nono posto. Meglio non parlare dell’area scandinava, di Usa e Canada, o di Svizzera e Giappone, da sempre con stipendi di tutto rispetto.
Nella media dei Paesi Ocse lo stipendio è maggiore del 12,4% rispetto a quello di un italiano; la differenza sale se si considera l’Europa a 15. In questo caso le nostre buste-paga sono mediamente più basse del 18,7%.
L’Ocse fornisce anche la stessa classifica nelle valute in corso nei vari Paesi, non tenendo conto dunque della parità del potere di acquisto. Mentre per gli altri Paesi si registrano cambiamenti di rilevo (in testa alla classifica salgono la Svizzera e la Norvegia, mentre la Corea scende al sesto posto), l’Italia resta comunque ad un ventiduesimo posto, davanti sempre ai soliti sette Paesi, riuscendo a sorpassare in più, ma di misura, solo la Grecia.
Il costo del lavoro, la riduzione del cuneo fiscale e la ripresa dei consumi anche attraverso l’aumento del potere d’acquisto delle retribuzioni sono al centro della campagna elettorale. All’Unione i sindacati chiedono che la riduzione del cuneo fiscale non sia a favore solo delle imprese. «Ridurremo le tassazioni sul lavoro – è la posizione del presidente ds Massimo D’Alema – in modo che le imprese ridurranno i costi, saranno più competitive e si potrà far crescere i salari che hanno raggiunto livelli intollerabili». Per il centrosinistra questa è una priorità, «Mettiamo al centro le ragioni dell’impresa e del lavoro – ha continuato D’Alema – la prima nostra scelta sarà quella di sostenere il lavoro per dare forza all’impresa».