L’appuntamento lo prendiamo tramite un amico in una villetta di Shar-e Naw. Ma non di tutti i presenti possiamo scrivere nome e cognome. Sono direttori o giornalisti di periodici che escono a fatica o che, per mancanza di fondi, non escono più. Ci sono ingegneri o giovani studenti, intellettuali della sinistra storica, laici impenitenti. Una città che ragiona ma che non può parlare perché, bisogna dirlo, a esprimere certe idee si rischia anche la pelle.
Non siamo in un oscuro anfratto di qualche bieco regime dittatoriale e neppure in qualche residuo statuale della guerra fredda. Siamo nell’Afghanistan della nuova democrazia dove è stata approvata una Costituzione secondo la quale, davanti alla legge, uomini e donne hanno pari diritti. In quell’Afghanistan dove le truppe Isaf (Nato) sono venute col mandato di garantire la stabilità di una giovane democrazia e di combattere l’oscurantismo dei turbanti talebani. Eppure…
Eppure certe cose si possono mormorare solo a mezza bocca ed è una vera bestemmia utilizzare un vocabolario che contempli le parole «secolarismo», «laicità» o persino «occupazione». Questi signori, uomini e donne di età e generazioni diverse, non vorrebbero, è bene dirlo subito, che i nostri soldati tornassero a casa. Con i talebani gli andava anche peggio. Ma, illusi come tutti gli afgani, dalla nuova stagione iniziata con la loro cacciata nel 2001, si ritrovano adesso ad essere come clandestini in una patria che li rifiuta. Ahmad, Abdul, Yussef sono i testimoni muti del fallimento della democrazia afgana. E, quel che è peggio, nessuno da’ loro una mano né diritto di parola. Il mese scorso hanno organizzato una conferenza stampa a cui non è venuto nessuno. Né la stampa locale, né quella internazionale. Presentavano i punti programmatici di un nuovo partito che si chiama National Progress Party of Afghanistan, organizzazione progressista che mette assieme una dozzina di gruppi d’intellettuali laici, spesso riuniti attorno a pubblicazioni, è il caso di Paiman-e-Adalat, che non riescono più a uscire. Molti ostacoli, pochi fondi. «E la nuova legge sulla stampa in via d’esame al parlamento – mette in guardia Golalai Habib, una donna coraggiosa che dirige il periodico Donia Zan – sarà un ulteriore bavaglio». Gli fa eco Abdullah, giornalista che fa parte di un gruppo per la democrazia: «Il ministro per l’informazione pretende che nessuno più entri in un giornale con la cravatta». Eppure fu tra i primi a salutare la nuova stagione democratica, prigioniera adesso di un fondamentalismo imperante. «Ci chiediamo cosa avete fatto in questi anni», dice. La gran delusione è infatti la Comunità europea. «Non ci aspettiamo molto dagli americani: per loro l’Afghanistan, come per russi e britannici, è terra di conquista geopolitica ma l’Europa»?
L’ingegner Mohamed sostiene che il peccato è stato originale. A Bonn, nella prima conferenza internazionale, non tutti gli afgani vennero invitati: «Né i talebani, né la gente come noi». Democrazia nata zoppa. E sciancata da «piani di privatizzazione – aggiunge il dottor Yussef – che altro non sono che una redistribuzione di ricchezza tra i vari potentati che hanno seggi in parlamento». Mohamed Nur sostiene che in questo paese malato, un corpo sano c’è, c’è sempre stato. «Ma nessuno – dice – se ne prende cura». E la società civile, i piccoli gruppi di intellettuali o i paladini del rispetto dei diritti umani, restano isolati in un paese dove, dice Abdul Qarzi, direttore di Kabulstan Nawin, «non esiste centralità dello stato e dove, soprattutto gli americani, hanno dissipato il consenso con l’arroganza dei loro mezzi blindati che attraversano la città a tutta velocità», mentre l’Afghanistan viene venduto a pezzi: fabbriche di cemento, la compagnia di bandiera, il settore dell’energia. «Tutto privatizzato senza nemmeno le regole del libero mercato». Maneggio di bottega.
Ma la nota più dolente è il senso di abbandono da parte di noi europei. Molti di loro hanno letto e studiato su libri scritti in francese o in tedesco. Si aspettavano che l’esercizio della democrazia fosse altro, si aspettavano appoggio politico e un sostegno che non si vede. «Per i giovani poi – dice lo studente Mohammad Sanyar – non c’è futuro. Vi stupite che crescano i talebani? Danno stipendi che arrivano a 400 euro. Tu che faresti?». Studia giurisprudenza. Nessuno, dice, investe sui giovani, Né davvero sulla democrazia. È un altro aspetto del fallimento della ricostruzione. Forse sarà necessario iniziare a ragionarci. Magari proprio con gente così, che deve affidarsi ai buoni uffici di un amico per incontrare un giornalista europeo. Incontro che lascia l’amaro in bocca.
* Lettera22