Gli eredi del ventennio nel segno della doppiezza

La ricostruzione delle origini del neofascismo in Italia compiuta da Giuseppe Parlato (Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, pp. 438, euro 25) si può considerare non solo la prima storia del fenomeno fondata su una documentazione ampia e inedita, ma anche la prima opera di effettivo revisionismo prodotta dalla cultura storica della destra italiana. Nel senso che revisiona profondamente le leggende di partito e una vulgata mediatica talmente diffusa da essere divenuta senso comune corrente.
Strutture segrete e fluide
Già la scelta cronologica va in questo senso: partire dal 25 luglio del 1943, anziché dal 25 aprile 1945, significa porre al centro, quale nucleo iniziale del fenomeno in divenire, la riorganizzazione dei fascisti nel Sud anziché i repubblichini in armi di Salò, da sempre considerati all’origine del nuovo fascismo. Al contrario: l’apporto dei reduci della Rsi sarà di grande importanza emotiva e simbolica, ma le fondamenta politiche e organizzative saranno romane e meridionali, come romani e meridionali saranno insediamento relativo e altrettanto relative fortune elettorali. È una storia, quella dei fascisti meridionali, fatta di strutture segrete e fluide, di sigle passeggere e intercambiabili, di contatti esperiti e conclusi con un arco di forze palesi e occulte di ampiezza insospettabile, e su cui torneremo.
I termini improvvisi e convulsi della crisi del consenso al regime nella prima metà del 1943 sembrarono suggerire la convinzione che il fascismo si fosse dissolto «come neve al sole», e la sensazione sembrò confermata dall’inerzia dei suoi quadri durante i quarantacinque giorni di Badoglio. In realtà il fenomeno non era estinto, come mostrò la parziale riattivizzazione di militanti durante la repubblica sociale, e ancor più un lascito sottotraccia destinato a riemergere nel tempo in settori non trascurabili della società italiana, di qualunque tipo fossero le scelte elettorali provvisorie che venivano adottate. È uno dei molti aspetti di un tema sempre controverso e periodicamente ridiscusso, che è quello della continuità tra fascismo e postfascismo, su cui l’autore si sofferma nell’introduzione, in termini non sempre convincenti ma comunque meritevoli di discussione.
All’eredità pratica, per così dire, del fascismo, che era fatta anche di uomini, di competenze, di strutture, non erano insensibili i partiti antifascisti. Nei campi di prigionia già organizzati dal 1943 e poi più numerosi dopo la Liberazione (fino a raccogliere una cifra complessiva di cinquantaduemila fascisti) si esplicava un’opera di proselitismo tanto democristiano quanto comunista. Possiamo dire che, azionisti esclusi, tutti i nuovi partiti si pongono il problema del «recupero» dei fascisti. Massiccio sembra essere stato il reclutamento nella Coldiretti da parte del gruppo dirigente democristiano, ma fu favorita anche l’entrata nella Cgil di molti sindacalisti (poca cosa, del resto, rispetto a quanto accadeva nella Germania dell’Est), forniti di competenze specifiche particolarmente preziose e dopo il ’48 confluiti per lo più nella Uil.
Oltre il discrimine del ’43
Se contatti informali vi furono in molte direzioni più difficile era la confluenza pubblica e organizzata. In particolare era controversa la questione dell’adesione al Pci, nonostante la disposizione in quel senso di alcuni gruppi di «fascisti rossi», già ampiamente studiata e fin troppo enfatizzata. Nel partito comunista i reduci del regime erano accolti volentieri, in base a una linea già decisa da tempo, purché fosse adesione di singoli («italiani in buona fede», delusi dal fascismo e così via), ma impossibile risultava l’adesione di gruppi o associazioni in quanto tali.
Tutto questo, che è parte non trascurabile del libro di Parlato, rientra comunque nella problematica dei «viaggi» attraverso e oltre il fascismo, a volte più lunghi di quello canonico e idealizzato da Zangrandi, che vanno ben oltre la data-discrimine del settembre 1943. La storia del neofascismo è invece la storia di quanti decisero di proseguire un cammino politico in rapporto di continuità dichiarata con la loro esperienza fascista, vecchia o nuova che fosse. Comune a entrambi i gruppi, che tentassero di uscire o rimanere nell’orbita ideale del fascismo, era comunque l’assillo incombente di una epurazione che oggi sappiamo inefficace non perché all’origine troppo blanda (come risulterà alla fine) ma perché troppo ambiziosa (e farraginosa) e a raggio troppo vasto, incapace di colpire le responsabilità veramente gravi ma in grado di tenere a lungo in ansia una parte troppo numerosa della società italiana.
Proprio la questione dell’epurazione è uno dei primi e fondamentali terreni di trattativa del neofascismo che si riorganizza, e che avrà un tornante decisivo nella stagione del referendum istituzionale. Con la contrattazione della neutralità (con entrambe le parti) in caso di tumulti seguiti al voto, in cambio di una disposizione favorevole all’amnistia. Il voto dei neofascisti però fu quasi ovunque monarchico, a testimonianza ulteriore dell’effimero «repubblicanesimo» della tradizione di Salò.
I rapporti con l’Uomo Qualunque di Giannini furono provvisori e perplessi, col voto quasi obbligato all’unica formazione che professasse precocemente un anti-antifascismo destinato a fortuna duratura nel tempo, ma lontanissimo ideologicamente dal comune sentire di fascisti vecchi e nuovi (svalutazione dello Stato e della statualità, individualismo ostentato e alieno da ogni forma di socialità, sia pure «nazionale», liberismo primitivo e anarcoide).
Alla data del ’46 comunque un nucleo fondante del movimento neofascista esisteva già, e si era costituito – è questo comprensibilmente l’elemento che ha attirato le maggiori curiosità giornalistiche – in una clandestinità segnata da velleità eversive e contatti molto più che informali con i servizi segreti operanti in Italia. Strana storia, fatta di nobili e principi dell’aristocrazia romana (Borghese, Pignatelli), di ambienti vaticani e massonici, di reduci di Salò e fascisti «dormienti», di atti di sabotaggio e piccolo terrorismo dimostrativo e soprattutto di rapporti con agenzie di spionaggio e controspionaggio che decollavano a nuova vita e nuova potenza mentre la guerra non era ancora finita ma già si preparava la «guerra fredda». Quei servizi che ci si aspetterebbe, italiani, inglesi e soprattutto americani (fondamentale è il ruolo dell’Oss, la futura Cia, e di uno dei suoi dirigenti più importanti, James J. Angleton) ma anche alcuni imprevedibili. Lasciando da parte la questione di Portella della Ginestra (su cui Parlato nega un coinvolgimento che altri storici asseriscono), l’atto eversivo più importante documentato nel libro è il supporto all’attentato contro l’ambasciata britannica di Roma, compiuto dalla frazione terroristica del servizio segreto del nascente stato israeliano, comprensibile come prosecuzione dell’odio antialbionico, ma indubbiamente sorprendente per la natura dell’alleanza.
Nel clima della guerra fredda
La sensazione che ne ricava il lettore è che in questa storia ci siano un po’ troppi servizi segreti, ma del resto non stiamo parlando di un partito «normale», che si costituisce attraverso un meccanismo di raccolta di un consenso alla luce del sole, che nei primi anni è inibito ai fascisti. Al di là di ogni sensazionalismo, credo si debbano sottolineare due punti: che sta nascendo un partito che ha (e che si propone di intensificare) addentellati rilevanti nelle istituzioni più delicate della repubblica nascente, e contatti stabili con servizi stranieri, cose che avranno il loro peso nell’evoluzione in anni successivi. Il secondo punto, ancora più importante, è che il partito, al di là della specifica retorica «sociale» e «antimperialista» a uso interno, nasce nel clima della costruzione della guerra fredda, e compie fin dall’inizio una scelta filoamericana e anticomunista, vedendo anzi lucidamente la sola possibilità di radicamento e affermazione proprio nella intensificazione dello «scontro di civiltà» che si sta costruendo e nella costituzione di un «blocco anticomunista» che consenta la sua presenza attiva e determinante.
Questo è chiarissimo nella visione politica dei suoi effettivi fondatori, e dà luogo a una specifica «doppiezza» che accompagnerà tutta la storia futura del Msi. Una scelta moderata e conservatrice dei vertici che convive col sovversivismo della base; e come ulteriore duplicità una sempre persistente e avvertibile differenza tra quadro degli iscritti ed elettorato del partito.
Il «figlio naturale» di Mussolini
Un partito dove molti anni dopo Pino Rauti potrà prevalere su Fini, interpretando cultura e istinti più profondi dei militanti, ma verrà smentito dall’elettorato, contrasto che in terminologia defeliciana potremmo definire tra un fascismo-movimento dei quadri non corrispondente alla nostalgia del fascismo-regime dei suoi elettori. Ma, parlando di «effettivi fondatori», è tempo di dar conto di quello che secondo noi è l’apporto più rilevante del volume. La revisione più clamorosa operata in questo libro riguarda infatti gerarchia, importanza, significato delle figure storiche di rilievo in questa vicenda: che si traduce in un drastico ridimensionamento della figura di Almirante (che nel vissuto neofascista ha assunto contorni mitici di fondatore e anima del partito) e in quello – più usuale – di Arturo Michelini.
La figura centrale che emerge è invece da ogni punto di vista quella di Pino Romualdi, vero padre politico e organizzativo nonché ispiratore della strategia politica di lungo periodo del futuro Msi. Elemento di continuità e raccordo tra fascismo di Salò e riorganizzazione fascista nel Sud, nato a Predappio, con una impressionante somiglianza con il «Duce» che alimenta a lungo la diceria del «figlio naturale di Mussolini», Romualdi avrebbe tutte le carte (e il fisico) in regola per divenire il leader riconosciuto di questo movimento. Non può, nell’immediato, assumere cariche pubbliche perché latitante (una latitanza singolare e ambigua, quasi alla luce del sole, che si conclude con l’improvviso arresto nel marzo 1948, forse per «decapitare» un partito concorrenziale rispetto alla DC in prossimità delle elezioni). Resta da chiedersi perché pur essendo il «padrone» del partito nonché la figura riconosciuta come preminente nel chiuso del suo gruppo dirigente non potrà (o non vorrà) mai assumere anche negli anni successivi la segreteria.
La spiegazione che adombra Parlato rimanda ancora una volta a quel nodo di rapporti ambigui che sono all’origine della costituzione del movimento: la «ricattabilità» di un personaggio che aveva avuto contatti e collusioni con troppi servizi e troppe «entità» e che sembrava consapevole di questo peso.
Un modesto due per cento
Giorgio Almirante diviene segretario per caso (una carica all’origine puramente amministrativa) del partito appena costituito. Nel corso della sua prima segreteria (dovrà poi attendere vent’anni per riconquistarla) dava spazio «al vissuto neofascista, all’antropologia missina …attraverso la lettura spesso emozionale ed esistenziale del fascismo, i rancori di una guerra civile perduta, il mito di Mussolini, il volontarismo dei giovani di Salò, le sofferenze della galera e delle epurazioni, il culto dei caduti, il nazionalismo venato di socialità…».
Il risultato elettorale del ’48 era un modesto due per cento, e un partito al margine della politica che appariva a un osservatore interno «repubblicano al nord, monarchico al sud, corporativo al sud, socializzatore al nord, nostalgico ovunque».
Con l’estromissione successiva di Almirante e la segreteria di De Marsanich, non a caso uomo del ventennio e distante da Salò, si tornava alla «politica», nella particolare accezione che il gruppo dirigente dava al termine. Che significava attesa di una svolta reazionaria, una «ora X» che poteva essere colpo di Stato di colonnelli nelle fantasie più fervide e diffuse, costruzione di un unico blocco anticomunista nelle strategie più realistiche.
In effetti fino al luglio 1960 il partito neofascista sarà un partito con un piede dentro le istituzioni, alla soglia di un potere che in particolari momenti sarà in grado di condizionare. Solo con il trauma della rivolta popolare contro Tambroni e con la scelta democristiana dell’apertura a sinistra si verificherà quella stabile emarginazione (il «polo escluso») che salvo pochi episodi continuerà fino a quando il partito verrà miracolato da Tangentopoli e dalla «discesa in campo» di Berlusconi.
Il rassemblement anticomunista tanto sognato verrà solo nel 1994, quando tutti i protagonisti di questa vicenda saranno scomparsi (e lo stesso comunismo estinto). Sotto le insegne di un qualunquista meno colto ma immensamente più ricco rispetto a quello di Guglielmo Giannini.