Gli alleati inquieti nella Casa ostile

Ha tentato, timidamente, la Destra, di ripetere la favola del Paese diviso. Il Nord riformatore contro il Centro conservatore e il Sud assistito. Però un semplice colpo d’occhio rivela che l’unica ad essere divisa, da questo voto referendario è proprio la Destra. La Casa delle Libertà. I cui inquilini a fatica potranno proseguire la coabitazione, come prima. Alle condizioni dettate dal padrone di casa. Perché il voto referendario rende evidenti – e anzi accentua – le distanze fra i partiti della coalizione. Le trasforma in fratture. Tanto più critiche perché si riflettono nella geografia e negli interessi. Il referendum. Complicato e astratto. È stato riassunto, percepito, dalla gran parte degli elettori, attraverso la “devolution”. Che richiama la questione settentrionale. La rivolta del “piccolo Nord”: le province pedemontane del Nord, costellate di “piccole” città, popolate da “piccole” imprese.
E da una “piccola” borghesia, da una base di ceti medi (“piccoli”). Il “piccolo Nord”, diventato “grande”, sul piano del mercato e dello sviluppo, negli anni Ottanta. Ma frustrato, perché costretto ai margini del potere politico ed economico. La Lega, a partire dagli anni Ottanta, gli ha dato voce. Una voce roca, come quella di Bossi, con cui ha gridato la sua insofferenza e la sua protesta. La sua voglia di contare. Fino ad approdare a Roma. Passando dall’antagonismo al governo. Dalla rivoluzione e dalla secessione alla devoluzione. Dalla società al palazzo. Questo referendum era, anzitutto, un fatto suo. Riguardava la Lega e il Piccolo Nord. Era alla base del patto fra Berlusconi e Bossi. L’asse del Nord, costruito, a fine anni Novanta, da Tremonti. La Lega più realista del re, accanto a Berlusconi. Sempre. Berlusconi disposto e disponibile verso la “devolution”. La bandiera che avrebbe legittimato i compromessi della Lega di governo di fronte agli elettori delle valli pedemontane. Lega e Berlusconi. Sempre insieme.

Contro gli stessi alleati della Cdl: An e Udc, ancorate, per geografia e interessi, nel Mezzogiorno. A costo di generare tensioni nello stesso “partito personale” di Berlusconi. Forza Italia: la cui base elettorale è concentrata in zone opposte, Lombardia e Sicilia. Ebbene, dopo la lunga campagna elettorale che ha preceduto le elezioni politiche di aprile, totalmente condotta in tivù. Totalmente giocata sulla figura di Berlusconi. Personalizzata e mediatizzata. Il territorio è tornato al centro della politica. E ha spezzato la Destra, oltre ad averla ridotta in spazi politicamente angusti. Come dimostra il risultato del referendum.

Il No ha vinto largamente, superando il 60% dei voti validi. Ha prevalso ovunque. Perfino nel Nord, con il 52%. Anche se, a questo proposito, ritorna la favola della “questione settentrionale”. Visto che la Destra, e soprattutto la Lega, insistono a “tagliare” dal Nord l’Emilia Romagna. Perché è rossa. O perché, “descrittivamente”, sta al di sotto del Po. Tuttavia, a parte il fatto che anche la Liguria (oltre a una parte di Piemonte) sta al di sotto del Po, nel Nord, anche prescindendo dall’Emilia Romagna, le due posizioni risultano molto vicine. E il Sì prevale di un soffio. Ciò suggerisce, semmai, che non sia l’Italia ad essere divisa, ma, semmai, proprio il Nord. Dove, peraltro, la costituzione fondata sulla devolution è stata approvata solo in due regioni, Lombardia e Veneto. Il LombardoVeneto. Che, infatti, la Lega e una parte della destra, oggi, celebrano, come “patria dei produttori”. Luogo dell’innovazione politica ed economica. Ma, se osserviamo con attenzione il Nord padano – e perfino il LombardoVeneto – scopriamo che non è un unicum, omogeneo. Non solo perché circa metà dei votanti, in quest’area, si è espressa contro il referendum, ma anche perché lo spirito devoluzionista alita soprattutto nelle periferie e nelle province.

Il No ha, infatti, prevalso nelle città maggiori. Nelle capitali. Tutte: da Milano a Venezia. A Torino a Trieste. Da Trento a Genova a Bolzano. Ma anche in gran parte dei capoluoghi di provincia. Ha prevalso, il No, in 37 capoluoghi su 47, nel Nord “naturale”. In 28 su 38, nel Nord padano (senza l’Emilia Romagna). In 11 su 19, nel LombardoVeneto. Infine, in 13 capoluoghi delle 23 province dove ha vinto il Sì (Padova, Vicenza, Treviso, Brescia e Cuneo, tra le altre). Il che rende evidente quanto abbiamo sottolineato in partenza. Questo referendum sancisce il trionfo del localismo.

La Repubblica fondata sulla “devoluzione”: è stata approvata dove la Lega “era” forte. Ieri. Anche se oggi lo è molto meno. Nelle province pedemontane. Ma questo referendum costituisce, al tempo stesso, una sconfitta, per la Lega di governo. E un evento lacerante per la Destra. Perché la Costituzione è stata bocciata sonoramente dagli elettori “amici”. In molte aree di forza della Cdl. Dove An, Udc e la stessa Fi hanno ottenuto, solo due mesi fa, un risultato molto positivo. Nel Sud. In Sicilia, soprattutto, ma anche in Puglia. Dove la Cdl dispone di oltre il 50% dei consensi. Ma il Sì ha ottenuto intorno al 30% dei voti validi. Il che significa, se teniamo conto della marea grigia dell’astensione, circa il 13% degli elettori.

Per cui, se la geografia divide gli elettori della Destra, è lecito pensare che i soggetti politici e i leader della CdL saranno sottoposti, da domani – forse già da ieri – a spinte centrifughe particolarmente violente.

1. An e l’Udc. Che, negli ultimi anni, hanno partecipato alla definizione di un progetto costituzionale approssimativo intorno alla devolution. In nome dell’unità della Casa delle Libertà. E, soprattutto, per conto del suo proprietario e Padrone. Cosa faranno, ora, che i loro elettori hanno deciso diversamente – li hanno lasciati soli? Ora, che gli alleati padani insisteranno. Caricheranno i toni. Agiteranno le loro Bandiere. Lanciando, magari, nuovi proclami indipendentisti.

2. Il padrone di casa, Silvio Berlusconi. In questo clima di tregua mediatica, dopo mesi di guerra elettorale. Senza l’aiuto della televisione che fa sparire il territorio dal dibattito politico. Lo riassume per intero negli studi di “Porta a Porta” e “Ballarò”. Che farà?
Riuscirà ancora a sopire, ad addomesticare gli alleati inquieti? fini e casini: ridotti al silenzio. Trattati come rompiscatole presuntuosi. Manco fossero tabacci e follini. E riuscirà, Berlusconi, a tenere ancora insieme la “sua” Italia azzurra, che riunisce, sotto lo stesso tetto, Lombardia e Sicilia? Il Sud che teme di diventare “autonomo” dallo Stato. E il Nord, il Piccolo Nord. Che, due mesi fa, a Vicenza, aveva accolto con entusiasmo i suoi proclami antagonisti e anticomunisti. Ora che lui sta davvero sta all’opposizione e i comunisti governano. Il Piccolo Nord: lo amerà come prima?

3. Infine e soprattutto: la Lega. Che popola la parte “più devoluta d’Italia”. Perché dovrebbe restare chiusa in una Casa ostile? Con le finestre rivolte a Sud? Come potrà spiegare ai suoi elettori pedemontani, la Lega, di aver lavorato a Roma per cinque anni. E di avere agito da alleata fedele e complice di Berlusconi. Accettando tanti compromessi. Fino a fare una lista comune, alle recenti elezioni, con i dc siciliani della Lega Lombardo (nel senso di Raffaele…). Con una sola missione: conquistare la “devolution” per il Nord. Per vedere incenerita questa bandiera, in un solo giorno, dal caldo vento del Sud, sospinto dagli elettori della sua stessa coalizione?

Non sorprende, in questo clima, che sia stato annullato il mitico, tradizionale appuntamento di Pontida. Per shock progettuale. La Lega dopo la devoluzione. Che farà? Che sarà? Facile immaginare una ripresa dell’antimeridionalismo. Facile immaginare che Roma Capitale, votata con i voti della stessa Lega, torni ad essere “Roma ladrona”. Facile immaginare che torni la voglia di mandare “a quel paese” i terroni, gli italiani, i (neo)democristiani, i (post)fascisti.
E riemerga, neanche troppo sommessamente, la minaccia secessionista. Focalizzata, magari, sull’indipendenza del LombardoVeneto. Solo che, dieci anni dopo la marcia sul Po. E dopo questo referendum. Converrà alla Lega cercare un fiume meno impegnativo.