Gli aiuti li porta già Hezbollah

Hussein Fbeih è la prima volta che torna a Bir Al-Abed da quando, con la sua famiglia, 12 giorni fa è scappato dai bombardamenti israeliani sul suo quartiere, nella periferia meridionale di Beirut. Si è unito al nostro gruppo, tutti giornalisti stranieri, approfittando delle «visite» quotidiane alle zone colpite che gli attivisti di Hezbollah organizzano per la stampa estera. «Voglio vedere con i miei occhi cosa gli israeliani hanno fatto al nostro quartiere ma ho una paura tremenda», ammette senza problemi ben sapendo che anche gli altri hanno il cuore in gola. Bisogna fare in fretta, la minaccia di un nuovo bombardamento aereo si è fatta imminente. Dal sud arrivano notizie di forti perdite tra i soldati israeliani lanciati all’assalto del villaggio di Bint Jbeil. «Quando in battaglia le cose per gli israeliani si mettono male o i katiusha cadono su Haifa, allora scattano i raid aerei su Beirut», ci spiega una delle guide. Si avanza a passo veloce, cercando di evitare i cavi dell’alta tensione, tenendosi a distanza dagli edifici pericolanti. Il centro «Said Shuhada», dove Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, teneva i suoi discorsi è stato colpito nuovamente martedì sera dai missili degli F16, ma in parte è ancora in piedi. La casa di Hussein invece non c’è più, è stata tra le prime ad essere colpita dalle bombe, perché vicina al quartier generale di Hezbollah. Quella del nonno invece è stata danneggiata solo in parte ma è inagibile. «Guardate – ci dice Hussein indicando il primo piano di una abitazione – su quella parete c’è ancora il quadro con l’immagine dell’Imam Ali». Poi aggiunge soddisfatto: «Le bombe israeliane non possono nulla contro i nostri Imam». Si comincia a correre, tra i frigoriferi e le lavatrici di un negozio di elettrodomestici che le esplosioni hanno sparso in strada, tra materassi e cuscini che qualcuno non ha fatto in tempo a portare via, attenti a non calpestare oggetti strani, non immediatamente riconoscibili, che potrebbero essere ordigni inesplosi. Israele – ha denunciato Human Rights Watch – ha scaricato sul Libano tonnellate di bombe a grappolo.
È stata una perlustrazione più breve rispetto ad altre volte tra le macerie che crescono e si espandono con il trascorrere dei giorni. «Motivi di sicurezza, gli aerei israeliani potrebbero arrivare in qualsiasi momento», spiega Ghassan Darwish, uno dei responsabili di Hezbollah per i rapporti con la stampa. Darwish ha voglia di parlare non solo di distruzione ma anche di ricostruzione. «La nostra gente ha una grande forza d’animo – esordisce – e noi (Hezbollah) faremo la nostra parte per assistere chi soffre ora e in futuro». Non aggiunge molto altro, ma è chiaro che si riferisce alla gigantesca mobilitazione e alla raccolta di donazioni che il partito di Hassan Nasrallah ha avviato in tutto il paese per aiutare gli sfollati e tutti coloro che hanno perduto la casa nei bombardamenti israeliani. Da alcuni giorni automobili con le insegne di Hezbollah percorrono le strade di Beirut dove si sono riversati – a casa di parenti ed amici – migliaia di abitanti di Bir Al-Abed e del quartiere adiacente di Haret Hreik. Hanno il compito di tenere alto lo spirito militante, di confermare la fiducia nella vittoria finale ma anche di rassicurare gli sfollati della capitale e quelli giunti a decine di migliaia dal sud dove infuria la battaglia contro l’invasore, che Nasrallah non li ha dimenticati e che, al termine delle ostilità, darà un alloggio a tutti.
Migliaia di case sono state distrutte, le reti idrica, elettrica e telefonica hanno subìto danni enormi. Ridare un appartamento a tante persone sarà un’impresa che richiederà molti mesi o forse anni e la leadership Hezbollah ha intuito che l’ampiezza delle devastazioni potrebbe giocare sfavore della popolarità del partito proprio tra gli sciiti, suo tradizionale serbatoio di voti e consensi. Non è insignificante che, in una intervista, Mahmud Komati, un importante membro dell’ufficio politico di Hezbollah, abbia ammesso che il Partito di Dio non si aspettava una reazione tanto forte da parte dello Stato ebraico dopo la cattura dei due soldati il 12 luglio. Aveva previsto attacchi pesanti, ma limitati a postazioni della guerriglia nel sud del Libano. Il bombardamento sistematico e devastante di Haret Hreik e Bir Al-Abed e di altre zone di Beirut non era stato messo in conto. Alia Hrub, 24 anni, non ha più una abitazione e da dieci giorni, assieme alla madre e alla sorella, vive a casa di una zia in una zona di Beirut più centrale, quindi non esposta ai bombardamenti. «Abbiamo ricevuto la visita di due rappresentanti del dipartimento sociale di Hezbollah – racconta – che ci hanno assicurato che, non appena termineranno i combattimenti, il partito ci troverà un alloggio temporaneo e in futuro ricostruirà il palazzo dove abitavamo».
Assicurazioni analoghe vengono date a centinaia di famiglie che da giorni sono costrette a vivere in scuole, università, palestre ma anche in giardini pubblici ed edifici abbandonati. Una promessa non facile da mantenere, nonostante la determinazione di Hezbollah, se si tiene conto che occorreranno centinaia di milioni di dollari e che gli aiuti dei Paesi arabi andranno al governo centrale libanese. È ancora presto peraltro fare previsioni sull’impatto politico che un eventuale accordo per il cessate il fuoco avrà su Hezbollah, soprattutto se gli Stati Uniti riusciranno a far prevalere la loro linea (che è quella di Israele) in aperto contrasto con la posizione di Nasrallah che martedì sera, in un discorso televisivo, ha ribadito a tutti i libanesi che non accetterà soluzioni «umilianti» imposte dall’esterno. Il Partito di Dio, che negli ultimi anni è stata una delle forze più influenti in Libano, potrebbe emergere dalla guerra ridimensionato, soprattutto se perderà il controllo militare delle regioni meridionali del Paese senza aver ottenuto in cambio il ritiro israeliano dalle Fattorie di Sheeba e la liberazione dei detenuti politici libanesi in carcere in Israele.